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È davvero finita l’era dei grandi cult?

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È ottobre del 2016 e io vivo in una stanza a Roma. I miei coinquilini sono via per il weekend e io me ne vado a letto alle 22 circa, ricordandomi di mettere la sveglia alle 2 e mezza del mattino. Mi alzo, comincio a tirare fuori le birre dal freezer, le buste di patatine e qualche altra cosa da mangiare che adesso non ricordo. Cominciano a venire un po’ di persone a casa, ci appropriamo della sala comune che, per quel fine settimana, è appannaggio mio. Ci siamo tutti e sono quasi le tre. Mettiamo su Fox e ci apprestiamo a scoprire – facendo finta di non esserci imbattuti negli spoiler su Twitter – chi sono i due personaggi a cui Negan ha fracassato la testa con la sua ‘Lucille’.

È una scena che si è ripetuta diverse volte durante i miei vent’anni. Per il finale della settima stagione di Game of Thrones, con tanto di visione collettiva in vacanza in Salento; per la battaglia di Winterfell; persino per il primo episodio di WestWorld che pensavamo tutti potesse essere l’erede spirituale di GOT e che, per la straordinaria prima stagione sfornata, poteva diventarlo davvero. Quella reunion del primo episodio della settima stagione di The Walking Dead è particolarmente significativa, sia perché non sarei mai più stato in grado di bere birre per colazione senza temere conseguenze gastrointestinali, sia perché in quel momento TWD ha effettivamente toccato il picco più alto del suo rapporto, quasi sempre controverso, con i suoi spettatori.

È stato anche argomento delle mie tesi di laurea il modo in cui The Walking Dead e Game of Thrones abbiano raccolto l’eredità di Lost come fenomeni socioculturali, per le dinamiche di fruizione del fandom, nel modo in cui orientavano le discussioni nelle serate tra amici e, soprattutto, per come davano adito a teorie e speculazioni sui forum dedicati prima e sui social poi. L’arrivo di Negan, per tornare a quella sera autunnale, ma ancora calda, del 2016, ha rilanciato l’hype in maniera stratosferica attorno a The Walking Dead ma, per contro, il fallimento di quello sviluppo narrativo, ha portato a una disaffezione del pubblico anche questa senza precedenti, tradottasi in un crollo degli ascolti abissale.

Ciò nonostante, eccezion fatta per Game of Thrones e qualche altra serie, è difficile trovare un fenomeno cult più grosso di TWD

Lungi da me fare reato di lesa maestà, ma la definizione di ‘cult’ sulla Treccani, a mio parere, non è esaustiva. Per la nota enciclopedia un cult è un prodotto che “riscuote un successo di lunga durata ed è particolarmente ricercato dal pubblico degli appassionati”. A questa descrizione, che è indubbiamente corretta, manca una specifica, ovvero “a prescindere dalla sua qualità”. In un certo senso è più precisa, per quanto stringata, la definizione che ne dà il Corriere: “film molto ammirato dalla critica o prediletto dai cinefili”. Perché sarebbe riduttivo lasciare tutto in mano ai gusti degli spettatori più accaniti: anche la critica è in grado di orientare il destino di un prodotto di massa, con i suoi giudizi o i suoi riconoscimenti (e vedremo più avanti in che modo).

Va poi fatta un’atra distinzione, quella tra i cult mainstream e i cult di settore. Game of Thrones è un cult che abbraccia trasversalmente il pubblico a prescindere dall’età, dalle abitudini di fruizione, dal ceto sociale. Ma un fenomeno di culto può anche abbracciare un pubblico specifico per via di alcune caratteristiche, tipo fascia d’età o interessi culturali. Questo – sempre per restare in ambito telefilmico – può essere ad esempio il caso di The Vampire Diaries, una delle serie teen per eccellenza, o The Wire, che non ha mai avuto ascolti molto elevati ma ha sempre mantenuto un zoccolo duro estasiato dalla qualità descrittiva dell’opera.

La serie di culto, forse anche più qualsiasi altro prodotto dell’industria culturale, segue delle logiche davvero frastagliate che la portano al raggiungimento di questo status. Abbiamo già menzionato il cult seriale per eccellenza, Lost, che dato il suo periodo storico ha rappresentato il connubio perfetto tra una struttura narrativa, che seguiva appieno le logiche della tv generalista, e la diffusione di internet nelle nostre case. Altri cult hanno abbracciato alla perfezione l’evoluzione della società di fine millennio: Friends e Sex & The City sono diventate tali anche perché hanno messo al centro della narrazione non più la famiglia “tradizionale”, ma un gruppo di amici, riuscendo a raccontare tra le righe la disgregazione dell’apparato familiare a discapito degli amici come paradigma della nostra esistenza.

Altre serie, come accennato in precedenza, hanno beneficiato di consensi entusiastici che le ha portate a diventare mainstream anche alcuni anni dopo la messa in onda della prima stagione. Questo è il caso, ad esempio, di Breaking Bad, Mad Men e, almeno in Italia, visto che negli USA è sempre andata fortissimo, I Soprano. Un’altra menzione d’onore vale la pena farla per Twin Peaks che ha saputo integrare benissimo le dinamiche televisive del tempo con l’estro di un regista autoriale come Lynch, dando allo spettatore il mistero, la paura, ma anche una rassicurante sensazione di familiarità.

Ma perché stiamo menzionando soltanto serie di almeno 10 anni fa? Cosa sta accadendo oggi?

Stranger Things
Stranger Things

Oggi succede che le serie tv continuano ad andare fortissimo ma, al tempo stesso, gli spettatori stanno vivendo una specie di crisi d’identità. L’offerta è cresciuta a dismisura e le modalità di fruizione sono sempre più sfaccettate. Un nostro cavallo di battaglia è quello di analizzare il dilemma tra le serie a rilascio settimanale e quelle a blocchi unici. Le prime senza dubbio aiutano ad assimilare meglio ciò che abbiamo visto e creano discussioni più intense e circoscritte delle seconde, le quali possono essere spesso discusse soltanto nel loro insieme. Al tempo stesso, però, le seconde nascono da un bisogno dello spettatore, che non può essere sottovalutato o minimizzato. Questa dicotomia, apparentemente irrisolvibile, ha finito per creare nuove forme di fruizione che si collocano su una via intermedia, come il rilascio di una “prima parte” di episodi e una “seconda parte”.

Tutto questo finisce sicuramente per creare fenomeni momentanei e meno duraturi perché sempre pronti a essere soppiantati da un nuovo trend. La sensazione è che molti prodotti seriali degli ultimi anni abbiano addirittura alimentato questo meccanismo, creando prodotti che generino un buzz istantaneo che vada a esaurirsi fisiologicamente nel giro di una o due settimane e così via con l’uscita delle stagioni successive. D’altra parte abbiamo ormai ben fissato in mente quanto sia importante per aziende come Netflix monitorare il traffico di ascolti nei primissimi giorni di uscita di una serie più che quello che accade nel corso dei mesi: non c’è tempo né risorse per investire su un prodotto che magari ha bisogno di più tempo per decollare, DEVE essere visto ASAP se vuole sperare in una sua continuazione. Un sistema che poi va a impattare anche sul numero di episodi, sul minutaggio degli stessi, sui dialoghi o sull’inserimento strategico di alcuni momenti narrativi all’interno del blocco.

Tuttavia non sarebbe corretto affermare che il ‘cult’ è defunto. Il fenomeno di culto ha scoperto nuove forme per diventare tale, ma esiste ancora. Sono diventate cult in Italia, ad esempio, alcune serie datate, come The Office o Sons of Anarchy. Sono diventati dei cult alcuni prodotti di altre emittenti che, sulle piattaforme streaming hanno raggiunto un pubblico maggiore, come ad esempio Mare Fuori. Disney+ ha riportato in auge alcuni franchise iconici (Star Wars e MCU) per creare nuovi prodotti correlati, alcuni dei quali seguiti come le saghe madri. HBO continua a perseguire la strada della qualità e dei consensi che si propagano fino a diventare ascolti nel tempo, come è accaduto a Succession, un’altra serie che pur non essendo considerata mainstream, non può non essere definita di culto.

Un discorso diverso può essere fatto per alcuni cult trasversali e duraturi nel tempo di questa epoca, come Stranger Things e La Casa de Papel. Possiamo definirli un po’ dei cult “a tavolino”, anche se forse per la seconda era impronosticabile il successo planetario che ha avuto. Entrambe le serie ammiccano a molti elementi fatti per piacere al pubblico, il primo facendo principalmente leva sulla nostalgia; il secondo rendendo iconico un immaginario fatto di maschere, tute rosse e motti rivoluzionari. Basti pensare all’impatto che hanno avuto quelle maschere in alcune proteste avvenute nella vita reale. Così, anche se non ricordiamo alla perfezione un episodio specifico ai livellii in cui ricordiamo La Costante o qualsiasi nono episodio di Game of Thrones, conosciamo a memoria espressioni come ‘Friends don’t lie’ o ‘Empieza el matriarcado’.

Pertanto possiamo arrivare alla conclusione che no, l’era dei grandi cult non è finita, ma è diversa da come la concepivamo. È meglio? È peggio. Ai posteri l’ardua sentenza. Per me ogni era è soltanto figlia dei tempi che si vivono e va preso atto di questo. Per il resto, finché ci saranno dei ventenni che si riuniscono alle tre di notte a bere birra e a mangiare schifezze, ci sarà speranza di assistere a nuovi, iconici grandi cult.