Dlin dlon, suona il campanello. Ore 21.00, né minuto più né minuto meno, come ogni settimana. Le 21.00 spaccate. Mi alzo e vado ad aprire la porta. Lui entra senza salutare, con il solito gesto del capo, e va ad accomodarsi nello studio. Volto impassibile, sguardo severo, mascella rigida e quel suo inseparabile stemma col cuore fiammeggiante e il cervo incoronato, emblema di una delle più importanti famiglie di Game of Thrones. Stannis Baratheon si accomoda sul lettino. Non che sia un paziente facile, il secondogenito dei Baratheon. Scorbutico e suscettibile come pochi, Stannis ha iniziato la terapia convinto che io potessi fornirgli una spiegazione razionale al perché la sua avvenente e seducente amante, tolta la collana, assumesse le sembianze di un Walder Frey invecchiato col seno. Deve essere stato parecchio traumatico per lui, addormentarsi con Melisandre e risvegliarsi accanto alla sua trisavola scomparsa cent’anni prima.
Ma a parte questo, Stannis Baratheon è un uomo complicato.
Si è presentato la prima volta nel mio studio con quello sguardo d’acciaio che trasmette solo inquietudine, gelo, distacco. Aveva l’alito pesante e i lineamenti tirati e quando gli ho stretto la mano mi ha detto che no, non era Giampaolo l’allenatore del Torino. Lui è il legittimo sovrano dei Sette regni, un titolo come un altro per nascondere la sua natura di marito infedele, padre pessimo e comandante scontroso. Stannis non è un uomo che sappia farsi amare, questo è certo. Ha il senso dell’umorismo di una fetta biscottata che cade sempre dal lato della marmellata. Mai un sorriso, mai una battuta, mai una frase di circostanza. Le nostre sedute sono una serie di interminabili silenzi che si inseguono, io dietro il mio taccuino, lui dietro la solita, impassibile espressione di ghiaccio.
Alle domande risponde sempre con monosillabi sussurrati a denti stretti. Il flusso di coscienza di Stannis Baratheon è una lunga sequenza di grugniti vomitati tra una smorfia del viso e l’altra.
Secondo di tre figli di una nobile famiglia del mondo di Game of Thrones, è venuto su col complesso del secondogenito. Non importa quanto arguto, brillante e giudizioso tu possa essere: se sei nato secondo, ti spetterà solo un cumulo di pietre in una qualche landa desolata. Il grosso del bottino andrà comunque a tuo fratello, quello pasticcione e inadeguato. Da ragazzo, Stannis ha visto morire entrambi i genitori e – capirete – questo è un elemento che consegna tanto lavoro alla nostra categoria. Ma alle sollecitazioni a parlare del suo passato, il mio paziente non risponde praticamente mai. È cresciuto tra le mura spesse e gelide di Capo Tempesta, sempre defilato, sempre nell’ombra del fratello maggiore. E della sua terra natale, si è portato dietro proprio la tempesta, quella furia composta e signorile che si intravede nei suoi occhi ogni volta che ti scruta con sguardo torvo.
Il dovere è il fuoco attorno al quale ruota l’intera esistenza di Stannis Baratheon, il più ligio al rispetto delle leggi e delle tradizioni in tutta Game of Thrones.
Ad osservarlo bene, sembra quasi che il dovere sia l’unico slancio vitale in un individuo morto dentro. Non ha combattuto per amore del fratello o per sete di potere: il suo unico cruccio è che fosse rispettata la legittimità della linea dinastica. “Sono il legittimo re dei Sette regni”, continua a ripetere. Ma io non sono ancora riuscita a capire se la cosa possa fargli piacere oppure no. Stannis non ha amici e questo non è difficile da credere. A parte l’affetto di ser Davos, il resto della sua vita è una grossa botola grigia dal fondo cosparso di risentimenti, gelosie, disprezzo, rancore alimentato nel silenzio. Regnare non lo salverà da se stesso, eppure lui si è convinto di essere l’unico a poter mettere in salvo Westeros. C’è un’altezzosa considerazione di sé alla base delle valutazioni dell’erede al Trono di spade, fomentata dalle parole che gli sussurra all’orecchio la famigerata Donna rossa.
Mi sono chiesta più e più volte come Stannis Baratheon, l’irreprensibile e integerrimo Stannis Baratheon, sia finito nella rete di lady Melisandre come un allocco. Quando affrontiamo l’argomento nelle nostre sedute, lui cerca sempre di defilarsi. Tra una contrazione nervosa e uno scatto improvviso della mascella, dà delle risposte elusive, confermandomi che è un argomento di cui non gli piace parlare. Certo, non deve aver preso bene il fatto che il figlio maschio che la Donna rossa gli aveva promesso, si è tramutato in un’ombra oscura che è vissuta giusto il tempo di pugnalare a morte suo fratello Renly. Stannis aveva bisogno di amore, Melisandre gli ha portato solo altro dolore.
Ma, si sa, in nome del dovere va bene tutto.
Nei rapporti familiari, d’altronde, il secondogenito dei Baratheon è una vera frana: ha preso moglie solo per rispetto delle convenzioni, poi l’ha costretta a vivere sotto lo stesso tetto dell’amante. È riuscito a salvare sua figlia da un’orribile malattia, ma poi l’ha segregata in un castello preparandola a un destino dieci volte più orribile. Ha disprezzato il fratello maggiore e ucciso il minore. Gli alleati lo rispettano, ma non lo amano. E pure questa ossessione del fuoco non è che l’abbia aiutato poi tanto. Parla dell’Azor Ahai come fosse in preda a un delirio farneticante, vaneggia di sogni e fiamme che gli sussurrano cose che non sempre riesce a capire. Se scoprisse che tutti i roghi che ha ordinato in onore del Signore della Luce sono nient’altro che un grande equivoco, il suo cuore duro si spappolerebbe in mille pezzi.
Stannis Baratheon ha sviluppato quello che noi terapeuti chiamiamo “il complesso di Capo Tempesta”, che consiste nel sentirsi assediati, spacciati, ridotti a una miseria umana e, soprattutto, dimenticati dalla vita. Ma nei soggetti che ne sono affetti è insita una capacità di resilienza che li spinge a resistere e sopravvivere a ogni avversità per uscire dall’ombra e reclamare un posto nel mondo. Persino quando scopri che la donna che ti porti a letto è la versione raggrinzita di Bathilda Bath di Harry Potter.
Ho detestato Stannis il giorno che si è presentato nel mio studio. I suoi modi distaccati, il disprezzo per qualsiasi forma di confessione a cuore aperto, il viso sempre corrucciato e la durezza delle sue parole mi avevano convinto che fosse uno dei peggiori pazienti con cui avrei mai avuto a che fare. Poi ho scoperto che, in realtà, era solo un uomo triste che aveva bisogno di una chance.