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Il grande rimpianto di GLOW

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Lo sappiamo da tempo: a volte Netflix da, a volte Netflix toglie. Sono numerose, infatti, le serie che la piattaforma ha deciso di annullare per motivi, spesso, a noi sconosciuti. E ogni volta, noi fan restiamo spiazzati e quasi spaesati. Una delle serie tv che certamente non meritava questo destino è GLOW. (Gorgeous Ladies of Wrestling). Uscita nel 2017, anche la produzione di questa serie ha subito le conseguenze della pandemia di COVID-19. Questo ne ha implicato, ahimè, la definitiva cancellazione nel 2020 e facendola terminare alla terza stagione. Nonostante la datata ambientazione anni Ottanta, la serie tocca (grazie anche a un’elegante esecuzione) tematiche e argomenti contemporanei e, purtroppo, ancora attuali. Ed è per questo motivo che credo che valga ancora la pena parlare di questa serie così sottovalutata, ma rilevante.

la locandina di GLOW, con le protagoniste in posa

Una serie che fa del corpo la vera arma protagonista

GLOW spicca come una delle poche serie comedy con un cast quasi completamente al femminile. Le creatrici dello show, Liz Flahive e Carly Mensch, ci mostrano modelli di donne che mettono in gioco il loro corpo in uno sport (il wrestling), che, fino agli anni 80, era esclusivamente declinato al maschile. Da qui la necessità di attrici volenterose e motivate per affrontare una sfida che colloca i loro corpi e le loro abilità fisiche al centro della scena.

Si vedono tutti i tipi di corpi, la loro forza e la loro potenza, mostrando come queste caratteristiche nel wrestling siano più che apprezzate. Quello che insegna questo sport, inoltre, è la fiducia nel proprio avversario, da cui nascono implicite relazioni interpersonali, sia tra i personaggi e i loro alter ego wrestler, sia tra le attrici stesse. Il vero obiettivo di un match, dopo quello di dare spettacolo, è quello di salvaguardare i corpi, propri e degli/delle opponenti.

Flahive e Mensch definiscono GLOW come una possibilità per raccontare il corpo e la fisicità femminile. Tutto ciò, però, senza il timore di mostrarne la sua forza (fattore che molto spesso si percepisce come tabù). Flahive e Mensch erano ben consapevoli che “uno show sul corpo è delicato”, ma alla base di questa creazione vi era la volontà di dare rilievo allo sport come espediente per trovare una propria libertà personale. Uno sport come il wrestling spinge a un’incessante scontro tra l’alter ego del personaggio interpretato sul ring e la propria identità personale – una versione, potremmo dire, un po’ edulcorata del mestiere stesso dell’attore.

All’interno del ring, il primo scontro è tra il personaggio e il suo alter ego wrestler

Più che archetipi (come vorrebbe far intendere il produttore dello show nella serie, Bash Howard), le maschere interpretate da alcune delle wrestler ricalcano stereotipi di stampo razzista. Uno show di wrestling, di base, promuove consapevolmente idee culturali preesistenti, da cui derivano e vengono amplificate tutte le implicazioni negative.
Alle colleghe bianche, infatti, spettano ruoli quali l’eroina d’America, Liberty Bell, o la malvagia russa, Zoya la Destroya, entrambi personaggi costruiti sulla base di devozione od ostilità che sorpassano le differenze intra-nazionali. Tutto ciò va a discapito delle donne nere (e non solo) a cui vengono affibbiati ruoli offensivi per la loro etnia. Questi personaggi (Arthie Premkumar/Beirut the Mad Bomber; oppure Tammé Dawson/The Welfare Queen) devono fare i conti, nel ring, con il pubblico e, in privato, con loro stesse.

GLOW ha afferrato il testimone dell’intramontabile Orange is The New Black

La produttrice esecutiva di GLOW non è altri che Jenji Kohan, creatrice e nuovamente produttrice esecutiva di uno dei cavalli di battaglia dell’intera piattaforma streaming: Orange is the New Black. Come in Orange Is The New Black, così in GLOW la figura della donna viene immersa nel limite tra lo sfruttamento e il cosiddetto empowerment. Le protagoniste vengono portate a lottare per la propria sopravvivenza in un mondo dominato da una mentalità maschilista e razzista. Entrambe le serie si propongono di porre all’attenzione dello spettatore le ingiustizie sociali, in particolare contro gli stereotipi razziali e di genere.

Come la sua precorritrice, GLOW prende un ambito oggi prettamente maschile e lo trasforma e lo analizza al femminile. Lo sviluppo e l’intreccio delle storie di queste outsiders non si ferma soltanto all’accettazione di genere e razziale, all’integrazione e all’abbattimento degli stereotipi. La serie introduce una riflessione per quanto riguarda coloro che non sono in grado di affrontare la realtà a livello emotivo e cognitivo (si vedano i personaggi di Crazy Eyes in Orange Is The New Black e di Sheila, la donna lupo, in GLOW).

Non è solo wrestling, costumi e lustrini

GLOW si propone di esaminare, in chiave comica con qualche elemento drammatico, argomenti problematici e delicati riguardanti le donne nel mondo del wrestling. Tali questioni, tuttavia, sono facilmente trasferibili a dinamiche sociali più ampie, le cui conseguenze oggi non sono cambiate rispetto agli anni in cui è ambientata la serie. Liz Flahive e Carly Mensch lanciano, quindi, una chiara provocazione verso il mondo dell’intrattenimento. La lettura può essere anche più ampia, verso il mondo lavorativo che, ancora oggi, frena la donna e abbassa le sue possibilità di ambire a ruoli più prestigiosi rispetto all’uomo, in primis attraverso salari più bassi, fino ad arrivare a umiliazioni e abusi più gravi, come le molestie sessuali. La serie, così, rientra a far parte di quelle azioni di denuncia contro gli abusi che fanno parte del panorama odierno.

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui non bisogna smettere di parlare di GLOW e perché non ci saremmo mai aspettati la sua cancellazione. Sebbene la quarta stagione sarebbe stata l’ultima della serie, sono vivamente convinta che questa serie in particolare meritasse la sua degna conclusione. Quindi, mie care lottatrici, riguardatevi questo piccolo capolavoro, parlatene con le vostre amiche e i vostri amici. E per nuovi spunti di riflessione, noi ne abbiamo parlato (e continueremo a farlo) fino allo sfinimento (cioè mai).