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Goliath – Il nichilismo finale ribalta il racconto biblico

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Golia è sempre favorito. Golia alla fine perde. Così era stato nella prima stagione di Goliath, in cui la vittoria del piccolo Davide aveva lasciato un barlume di speranza nella vita di Billy e dei suoi amici e familiari. Così non è andata in questa seconda stagione, in cui la scrittura di Marisa Wegrzyn ci consegna un episodio finale completamente improntato al nichilismo e alla sconfitta dei più deboli, su tutti i fronti.

Golia ha vinto, in totale contrasto con la tradizione biblica. Lo fa riuscendo a diventare l’unico fautore del destino sia dei buoni che dei cattivi.

Questo avviene anche perchè in questa seconda stagione di Goliath i cattivi sono nascosti fra i buoni. Un nome su tutti è quello dell’aspirante sindaca Marisol Silva, amante di Billy. È lei la coautrice del piano che permetterà a Gabriel di fare in modo che l’innocente Julio simuli il suo suicidio in cella.

Il Tribunale è assente (a differenza che nella prima stagione) perchè le dinamiche della storia non permettono la sua esistenza. Infatti Golia riesce a eliminare tutte le prove e le testimonianze che lo avrebbero inchiodato in Tribunale. Il Cartello riconosce la forza dell’avvocato Billy McBride, ma proprio per questo sa che deve fare di tutto per fermarlo prima che possa entrare nel suo habitat naturale. È questo il piano di Gabriel, e purtroppo riesce completamente.

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Come detto, uno dei temi portanti è proprio quello del tradimento, in particolare quello di Marisol nei confronti di Billy. Si badi, non è stato solo un tradimento professionale, ma anche sentimentale.

Goliath vede il trionfo del male per un semplice e amaro motivo. Dietro quello che si ritiene sia il Bene (Marisol su tutti), si cela in realtà il maggiore complice del Male. Un Male legato agli interessi personali, alla popolarità, alla distruzione dei valori a vantaggio della criminalità: il mondo, in una parola.

Il Billy McBride di questa ultima puntata è il dipinto dell’intera stagione, vissuta dall’uomo in un modo diverso rispetto a quello che eravamo abituati a vedere. L’avvocato, seppur brillante in tribunale, fuori dall’aula si rivela essere impotente di fronte allo strapotere del Cartello messicano. Anzi, passa più tempo a capire cosa sta effettivamente succedendo che a trovare una soluzione agli eventi che lo accerchiano. In questo senso è interessante il parallelismo che si crea col finale della prima stagione.

La solitudine e il bagno notturno in mare dopo la vittoria in tribunale nella 1×08 sono paradossalmente più cupi della visione del tramonto in spiaggia in compagnia della figlia, che segue invece la clamorosa sconfitta nella 2×08.

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Un finale dunque agrodolce, che forse mira a bilanciare il nichilismo di scrittura che emerge da Tongue Tied, perchè di tributo alla sconfitta si parla. Nessuno dei personaggi che lotta per la vittoria dei deboli riesce ad affermare le proprie ragioni. La reale vittoria è riuscire ad avere salva la vita. In questo senso, il nichilismo trionfa sulla tradizione biblica. I mulini a vento sconfiggono inevitabilmente Davide, che non ha mai avuto una reale speranza.

È evidente che questa stagione di Goliath presenti alcune pecche di scrittura rispetto alla prima. In particolare, è un peccato che si sia lanciata la pietra relativa all’analisi psicologica della personalità di Billy nella prima puntata e si sia però nascosta la mano che avrebbe dovuto effettivamente portare a fondo questa analisi.

La pecca, in questo senso, potrebbe essere individuata nell’aver provato a trasformare Goliath in un crime d’azione, abbandonando il terreno fertile del crime giuridico della prima stagione. Inevitabile dunque il venir meno di una introspezione a vantaggio di una sparatoria.

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Questo ha implicato anche una performance di Billy Bob Thornton ordinaria, non eccezionale. Certo, un Thornton ordinario è superiore a molti attori, ma la scrittura del suo McBride non gli ha permesso di fare sfoggio delle sue principali qualità. L’avvocato resta spesso senza parole, e questo non è un bene, per nessun avvocato.

La regia ha puntato tutto sulla tecnica timelapse e, soprattutto, sull’enfatizzazione della fotografia: veramente superlativa, coglie i fantastici paesaggi californiani e messicani in un modo tale da far riflettere sul marcio che invece si nasconde dietro a tale bellezza. Domanda secondaria, ma legittima: e la sigla fantastica della prima stagione, accompagnata dalla scoppiettante canzone dei The Silent Comedy’s Bartholomew, che fine ha fatto?

Tutto sommato – anche per un desiderio di rivincita insito in ogni essere umano che aspira a sconfiggere il nichilismo – non possiamo che sperare in una terza stagione.

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