La conclusione di Good Girls, per quanto discussa e priva di lieto fine, ha lasciato lo spettatore con la consapevolezza che la sua trama non è poi così generica quanto sembrerebbe a una prima visione superficiale.
La serie creata da Jenna Bans e Jeannine Renshaw segue le vicende delle madri di famiglia Beth, Annie e Ruby che, per risollevare le sorti delle rispettive famiglie in ristrettezza economica, improvvisano un colpo al supermercato trovando però in cassaforte molti più soldi di quanto si aspettassero, essendo tale somma indirizzata a un gruppo di gangster che regolarmente estorce denaro alle varie attività locali. Avendo dunque rubato soldi destinati al mercato nero, si ritrovano invischiate nei loschi affari del capo della banda criminale Rio, che le costringerà al riciclaggio del denaro sia per ripagare la somma che gli è stata sottratta sia perché, l’essere tranquille e incensurate madri di famiglia, le rende bersagli insospettabili dalla polizia. Se in un primo momento le tre donne sembrano terrorizzate all’idea di avere a che fare con un tale stile di vita, successivamente prevale in loro il desiderio di rivalsa e potere che per tanti anni la vita le ha negato. Ed è in questo esatto momento che Good Girls diventa la storia di chiunque abbia trascorso la maggior parte della propria vita da spettatore più che da protagonista; le tre donne rappresentano tre prototipi nei quali non risulta complesso identificarsi, lasciandoci ancora una volta di fronte all’enorme interrogativo morale: il fine giustifica sempre i mezzi? Il colpo al supermercato, infatti, nasce dall’esigenza di garantire sicurezza economica alle famiglie per Beth e Annie ma, soprattutto, per aiutare l’amica Ruby ad accumulare la somma necessaria per il trapianto di rene di cui necessita la figlia (trovate azzardato il parallelismo con Breaking Bad?).
Beth Annie e Ruby: tre archetipi universali
Perché tendiamo a considerare le tre protagoniste di Good Girls dalla parte dei “buoni” pur compiendo le stesse azioni della fazione dei “cattivi“? La risposta è semplice; nelle azioni e soprattutto nelle motivazioni di Beth Annie e Ruby riusciamo a indentificarci più di quanto sia possibile fare con Rio, le cui attività restano fini a sé stesse. Ancor più delle loro motivazioni, però, c’è un secondo aspetto fondamentale che ci spinge a fare il tifo per loro: sentiamo che quel senso di potere e di rivalsa che arriveranno ad avere al punto tale da proseguire in quella vita criminale, in fondo se lo meritano. Meritano il potere perché hanno passato la vita in una posizione subordinata, oscurate dall’ombra di uomini che le hanno delegate al ruolo di allevatrici di bambini e domestiche di casa, annientando completamente il loro potenziale. Beth viene tradita ripetutamente da suo marito Dean mentre lei è a casa a far quadrare i conti e ad incastrare gli impegni diversi dei suoi quattro figli. Ruby è una donna afroamericana (due condizioni ancora oggi discriminanti) madre di due figli, tra cui una bambina gravemente malata e, il cui marito Stan, non riesce a provvedere alle spese economiche nonostante il suo buon lavoro come agente di polizia. La sua famiglia è fin troppo onesta per sopravvivere nello spietato mondo di Detroit e Stan perde il lavoro dopo aver tentato di proteggere sua moglie e le sue due amiche (ironico che succeda in un contesto culturale come quello americano in cui il potere delle polizia è per di più abuso di potere). Good Girls è la storia di chi non ha nulla ed arriva poi ad avere tutto e questa ricchezza (non tanto economica quanto di potere) è un privilegio troppo grande da lasciare andare.
Good Girls ha una trama universale perché non riusciamo a biasimare le sue protagoniste
Tornando al paragone iniziale con la serie cult Breaking Bad, tra le varie analogie (come il sentirsi costretti per questioni di vita o di morte a intraprendere la strada del crimine e non riuscire a smettere a causa della gratificazione che questo provoca) possiamo trovare una differenza sostanziale: la gratificazione che sente Walter White è data dal senso di virilità che acquisisce nel momento in cui passa dall’esser un uomo anonimo difficile da notare a uno temibile che rappresenta il pericolo. Le protagoniste di Good Girls, invece, non aspirano mai a quella condizione di rivalsa sull’altro tale da intimorire, accrescendo la propria potenza con la paura altrui. La rivalsa di Beth, Annie e Ruby è quella con sé stesse, data dalla nuova consapevolezza di poter fare qualsiasi cosa al pari degli uomini, in particolare una fondamentale: aspirare ad essere felici senza sacrificare la totalità della propria vita alla famiglia.
Good Girls non è solo la storia di tre donne, è la storia delle donne, è la storia di chiunque si sia sentito non all’altezza a causa di preconcetti imposti, ed è una storia nella quale è semplice immedesimarsi (nonostante la poca veridicità della vita criminale) perché l’unico fine a cui aspirano (che giustifica i mezzi, non la rapina, non la criminalità ma la consapevolezza dell’esser capaci a raggiungere qualsiasi mezzo) è la realizzazione personale.
E a quella aspiriamo davvero tutti. Universalmente.