Grey’s Anatomy è arrivata alla diciannovesima stagione. Diciannove stagioni, un traguardo quasi impossibile per una serie. Certo, ci sono gli sceneggiati, le telenovele, ma un medical drama che abbia raggiunto questo obiettivo? Praticamente impossibile. E, invece, Grey’s Anatomy ce l’ha fatta. Ce l’ha fatta, ma a che prezzo? Mi verrebbe da chiedere.
Sì, perché era inevitabile che dopo diciannove stagioni la serie di Shonda Rhimes avesse un declino. Portare avanti per troppi anni una storia, indipendentemente da quanto i fan siano legati ad essa, non è proprio ideale. C’è un momento in cui semplicemente si smette di avere qualcosa da dire, si esauriscono gli argomenti, i possibili intrighi, i racconti umani. E a quel punto che si fa? Si cerca di inserirne di nuovi, di crearne di nuovi di solito introducendo altri personaggi che però – inevitabilmente – si farà più fatica a metabolizzare. Alcuni attori abbandonano la nave perché a quel punto diciamo proprio che non è più una crociera piacevole quella su cui stanno navigando, ma piuttosto un interminabile viaggio paragonabile – per certi versi e per alcuni interpreti – alla reclusione in una struttura penitenziaria o – mantenendo la metafora navale – la crociera di Triangle of Sadness. Ecco.
E mentre pensavo a questa degenerazione di Grey’s Anatomy i cui unici volti originali che tuttora resistono alla tentazione di nuovi ed eventuali viaggi sono Miranda Bailey e Richard Webber, mi è tornata in mente la prima stagione e in particolare il primo episodi. E mi sono ritrovata a pensare a quanto era bella Grey’s Anatomy, quella di una volta. Quella in cui Meredith Grey non era Meredith Grey con le iniziali in maiuscolo, quella in cui era semplicemente una specializzanda (sì, pure a quei tempi non era esattamente la prima sprovveduta, ma era la figlia della grande, immensa, mitica Ellis Grey).
Questo mi ha portato a guardare al suo percorso dalla prima all’ultima e deludente apparizione e ho riflettuto su quanto si sia evoluta. Signori, noi Meredith Grey l’abbiamo praticamente vista crescere e sì, lo dico con la stessa tenerezza e convinzione di quegli zii che vedi solo ai funerali o ai matrimoni e che come se dovessi necessariamente ricordarti la tua infanzia, ti dicono tirandoti una guancia “ma come sei cresciuta, ti ricordi di me? Sono zia Mina, ti ho praticamente cresciuta” e tu lì ad annuire con la guancia ancora intrappolata nella presa mortale sperando che quel supplizio termini il prima possibile.
Insomma, l’abbiamo conosciuta quando ancora era “solo una ragazza in un bar” e l’abbiamo lasciata andare adesso solo adesso che è diventata un affermatissimo medico che ha rivoluzionato la medicina. E sono così fiera di lei.
Certo è che pensando a lei, è inevitabile ripensare a Grey’s Anatomy dell’inizio, quella dei MAGIC che si sarebbero venduti un organo vitale pur di partecipare a un intervento. I MAGIC che ritrovavamo sfiniti da qualche parte, in qualche corridoio a fine turno a stravaccati sulle barelle a raccontarsi gli alti e i bassi delle loro giornate. I MAGIC che ci hanno fatto sognare con i loro intrighi, le loro storie e le loro straordinarie amicizie. Di Meredith abbiamo abbondantemente parlato, ma è bene ricordare che è stata la personificazione del ‘mai na gioia;
Alex: fastidioso e insopportabile all’inizio come l’orticaria e intollerabile come il prurito della varicella, ma bello ed estremamente attraente proprio per questo; George con la sua dolcezza e la sua determinazione unite al talento estremo di riuscirsi a ficcare sempre nelle situazioni più assurde e imbarazzanti; Izzie così testarda e determinata, ma anche così fragile e così perfettamente imperfetta (non a caso rimarrà per sempre uno dei miei personaggi preferiti nella storia di Grey’s Anatomy); e, infine, ultima ma non per importanza: Cristina.
E su Cristina potremmo e dovremmo aprire un capitolo a parte. Cristina Yang è stata il personaggio più iconico che Grey’s Anatomy abbia mai sfornato, forse – e mi prendo tutta la responsabilità nel dirlo – anche più iconica della stessa Meredith Grey. Cristina che ha rovesciato tutti gli stereotipi dei personaggi femminili seriali e – più in grande – nella società. Quella che forse tra i primi ha affermato a gran voce nei primi anni del 2000 che il suo obiettivo nella vita non era la famiglia, non erano i figli, ma la carriera.
Un’affermazione così moderna e progressista che l’ha consacrata al paradiso divino delle femministe seriali. Un modello di empowering femminile che tuttora dovrebbe essere seguito e non solo per l’affermazione in sé, per la scelta in sé di mettere la carriera al primo posto, no, ma per la il concetto più generale: per quella libertà di mettere al primo posto se stessi e qualunque sia l’aspirazione della nostra vita che sì, per qualcunə potrà essere il lavoro, per qualcun altrə la famiglia, per qualcun altrə ancora se stessə, ma comunque resta quel concetto di base, quella determinazione nel lottare – senza farsi condizionare da pregiudizi, circostanze, ambiente o robe del genere – per ciò che si vuole.
Grey’s Anatomy quella di una volta, quella di Burke affascinante e odioso contemporaneamente, un talento straordinario il suo che necessita riconoscimento; quella di Derek Shepherd così egocentrico, ma così affascinante e carismatico da far perdere la testa. Grey’s Anatomy degli intrighi e delle effusioni in ascensore, quello delle sveltine nella stanzetta degli specializzandi o nel ripostiglio dei materiali sanitari (che detta così non suona granché romantica o igienica).
Quella delle coppie formate con il generatore automatico, quella delle ship iconiche ed eterne e sì, mi riferisco proprio ai Merder, agli Slexie, alle Calzona, ma soprattutto ai Japril. Quella degli interventi assurdi e dei casi fuori di testa. Quella delle calamità naturali e degli accadimenti più folli che esistano, come disastri aerei che uccidono i tuoi personaggi preferiti, bombe in ospedale, familiari di pazienti armati, di medici che frequentano o sposano pazienti incontrati da relativamente poco tempo (a volte anche per scroccare loro l’assicurazione sanitaria) e che quasi sempre crepano.
Grey’s Anatomy di una volta, quella dei trecentomila specializzandi che vivevano in casa di Meredith Grey; quella di Meredith Grey che si perde nei corridoi portando Katie Bryce a fare una radiografia; quella del discorso di Richard Webber; quella di “prendi me, scegli me, ama me“; quella di “ciao, sono Addison Shepherd e tu devi essere la donna che va a letto con mio marito“; quella di Cristina Yang che cerca la sua scarpa; quella di 007 “è George, è George!“; quella dei grandi gesti, di matrimoni interrotti, di discorsi motivazionali, quella di Lexipedia, quella di “lui non è il sole, tu lo sei“; quella di Chasing Car come colonna sonora di qualunque tragedia.
Insomma, quella che inevitabilmente un po’ ci ha cresciuti. Quella che ci faceva piangere, emozionare, ridere e divertire. Quella che ci ha insegnato un’esorbitante numero di termini medici che quasi ci fanno credere che potremmo effettivamente comprendere la diagnosi di un medico senza necessariamente doverci affidare a Wikipedia per dover tradurre quello che ci è stato detto. Quella che seppur ci ha lasciato da troppo tempo evolvendosi in altro, ha un posto speciale nel nostro cuore. Quella che, nonostante tutto, continueremo ad amare sempre.