Attenzione: nel seguente articolo ci sono spoiler su The Leftovers.
Caro diario,
sono io, Laurie.
Il periodo di prova è ufficialmente terminato: sono a tutti gli effetti un membro dei Colpevoli Sopravvissuti. Questo significa che non mi è più permesso parlare; da oggi potrò comunicare solo con carta e penna. Si tratta di strumenti che non ho mai abbandonato, malgrado Internet li abbia resi obsoleti. Durante le sedute appuntavo a mano annotazioni in merito ai pazienti e alle confidenze che mi facevano; dopo ci aggiungevo spunti e riflessioni da sottoporgli, input che potessero fare loro da guida. Era tutto racchiuso in un’agenda, una sorta di diario segreto tenuto per conto di altri. Ho pensato di inaugurarne uno personale, dopo la scomparsa, ma non ho mai avuto il coraggio di trasformare l’idea in un’iniziativa a cui dedicarmi realmente.
Raccontare ciò che è successo avrebbe significato guardare in faccia il dolore che mi portavo dentro, ed era l’ultima cosa che desiderassi fare. Ho passato anni a dispensare insegnamenti sul dolore, su quanto sia importante accettarlo, abbracciarlo e metabolizzarlo, ma quando è stato il mio turno di averci a che fare ho scelto di eluderlo, di soffocarlo dentro la divisa che indosso e la nicotina che mi inietto continuamente nei polmoni. Immagino sia per questo che mi sono decisa soltanto adesso; perché ho anestetizzato la sofferenza con altri mezzi e scrivere non mi serve per scenderci a patti. Mi sono decisa soltanto adesso perché è più semplice di quanto non lo fosse allora, ma non solo. C’è anche un altro motivo, uno più profondo e nascosto.
È qualcosa che ha a che fare con il silenzio. C’è un silenzio denso e asfissiante, in mezzo a noi, un silenzio condito da suoni che gli fanno da sfondo più che da contraltare: il rumore di passi che si susseguono, il fruscio di pagine che vengono voltate, lo scatto continuo di accendini impegnati a dispensare gas. Questo silenzio freddo e incessante è come una cassa di risonanza interiore. Nel silenzio mi sembra di sentire l’eco della voce di Tom e delle risate di Jill; mi sembra di udire le grida che si sono levate il giorno in cui tutto è cambiato; mi sembra persino di cogliere il pianto di quella bambina a cui non è stato permesso di venire al mondo e che non piangerà mai davvero. La sento, e la immagino, e il fatto di doverla completamente inventare, di non avere un volto a cui fare riferimento, mi strazia il cuore come la stretta di una mano invisibile intenta a stritolarlo. Il silenzio alimenta i dubbi e i tormenti: dov’è che è andata mia figlia? Dove sono finiti tutti? Perché sono spariti? Torneranno mai indietro?
Nel silenzio è come se queste domande mi venissero gridate direttamente all’orecchio, come se mi fossero vomitate addosso da una bocca crudele che non recepisce l’ordine di tacere. Il silenzio rivela che il lutto è ancora qui, piantato dentro di me come un ammasso di radici nella terra, e che l’identità che ho provato a rinnegare mi appartiene ancora. Mi sono spogliata di ogni segno distintivo, lasciandomi alle spalle tutto ciò che mi rendeva me stessa: la mia casa, la mia famiglia, il mio lavoro, ogni cosa che contribuiva a definirmi. Perché è questo che significa, essere un Colpevole Sopravvissuto: trasformarsi in una tela bianca su cui incidere un promemoria ostinato, sostituire alla propria storia una testimonianza dal valore universale. Essere una Colpevole Sopravvissuta significa non essere più Laurie, che a sua volta equivale a non essere più una madre mutilata, una donna perduta, una persona irrimediabilmente segnata dalla perdita. Eppure nel silenzio mi accorgo che sono ancora ognuna di queste cose.
Anche se mi vesto di bianco, anche se ingurgito sigarette, anche se mi limito a scrivere e non dico una sola parola, anche se perseguito gli altri affinché tengano a mente ciò che io verrei così disperatamente rimuovere, sono ancora e sempre e inesorabilmente quella che ha incontrato uno schermo nero lì dove ci sarebbe dovuta essere la nuova vita che ha generato.
Forse il battesimo che ho ricevuto cambierà le cose, o forse dovrò arrendermi al fatto che quel che dicevo ai miei pazienti vale anche per me: non si può superare un trauma senza farsi carico delle ripercussioni che ha gettato sulla nostra persona. Ma io non voglio farlo; non voglio superarlo. Se non posso dimenticarlo, resterò sua eterna prigioniera pur di non doverlo affrontare.