Caro Diario,
sono io, Rebecca.
La diagnosi è arrivata: si tratta di alzheimer.
Randall parla già di cliniche private da contattare e di cure sperimentali da tentare. So che la sua ansia è legittima, ma ammetto di non provarla a mia volta. Non ho vissuto il responso come una condanna, ma come un sollievo. Una risposta è meno lacerante del dubbio, anche quando non è quella che speravi di ricevere. Quello che mi stava accadendo mi rendeva ogni giorno più confusa e spaventata; era come essere in balia di una tempesta scoppiata all’improvviso, senza alcuna nuvola a fare da segnale di allarme. Ora che so cosa di cosa si tratta, posso correre ai ripari. Posso provare a equipaggiarmi in modo da resistere alle onde, anche se so che prima o dopo arriverà il momento in cui finiranno per travolgermi.
È stata un’impresa convincerlo ad andarsene. Per tutto il tempo in cui siamo stati insieme mi ha trattata come se fossi una bambola di porcella pronta ad andare in pezzi, uno di quegli oggetti fragili messi in scatole su cui campeggia l’avviso “Maneggiare con cura.” Non è così che mi sento e non è così che voglio essere vista dagli altri. Non voglio che mi facciano sentire diversa mentre sono ancora me stessa, ma ho concesso a Randall di elargire quelle premure senza protestare, perché so che è il suo modo di esternare la preoccupazione. Ci vorrà del tempo perché scenda a patti con la situazione; spero solo che il processo non sia troppo doloroso per lui. Miguel si è sforzato di contenere l’angoscia e di comportarsi come se niente fosse accaduto. Abbiamo cenato senza fare riferimenti alla malattia. Era un fastidioso, costante rumore di sottofondo, ma è stato bello lasciare che le nostre conversazioni lo sovrastassero.
Era quello di cui avevo bisogno.
Quando sono rimasta sola ho pensato ai miei figli. Ho pensato a Kevin, Kate e Randall. Scrivo i loro nomi e nel farlo visualizzo i loro volti, i loro sorrisi, le immagini dei bambini che sono stati. Ogni cosa che li riguarda è gelosamente custodita nella mia mente, come una collezione di pietre preziose accumulata negli anni. È uno scrigno che vado a riaprire ogniqualvolta vengo presa dalla nostalgia, oppure quando Annie viene a chiedermi un aneddoto tratto dall’infanzia del suo papà. Non ho bisogno di una chiave per farlo; bastano le mie mani, basta un semplice input e il mio pensiero è lì, in quell’esatto momento del passato, pronto a riviverlo e a farlo rivivere. L’idea di non avervi più accesso è surreale tanto quanto quella di disimparare a respirare, troppo per farmi realmente paura.
C’è una sola, singola prospettiva che riesce a spaventarmi mortalmente, a fare breccia nel senso di pace che mi ha avvolto: dimenticare Jack. Da quando se n’è andato non c’è giorno in cui non mi sovvenga un episodio, una frase, un dettaglio, qualcosa in grado di farmelo sentire ancora vicino, ancora presente; ancora vivo. Mi sono chiesta come sarebbe stato averlo accanto nello studio del dottore e condividere con lui il peso che mi è piombato sulle spalle. Ho desiderato saperlo, com’è accaduto in ogni momento importante che non ho potuto affrontare con lui al mio fianco. In quelle circostanze mi sono domandata come avrebbe reagito, che cosa avrebbe fatto, quali parole avrebbe utilizzato, e sono sempre riuscita a darmi una risposta.
Stavolta non è stato diverso.
So che Jack avrebbe preso la mia paura e l’avrebbe smontata con una delle sue mosse da prestigiatore, una di quelle con cui sembrava che potesse rimettere a posto le sorti dell’intero universo. “Tranquilla, tesoro: farò in modo che non dimentichi nulla” avrebbe detto, e io gli avrei creduto, come ho fatto la volta in cui si è proposto di andare a raccogliere un fascio di stelle da donarmi. Lo avrei fatto perché per me Jack poteva tutto, persino spegnere il sole. Forse è per questo che sono così stranamente calma; perché dentro la mia testa sento la sua voce che scandisce promesse e rassicurazioni, e ascoltandola il mio spirito si acquieta come per una sorta di riflesso condizionato. Jack è sempre riuscito a farmi sentire protetta, e al sicuro, anche quando la minaccia che incombeva era troppo grande per essere annientata da un semplice uomo.
Posso ancora percepire Jack, e posso farlo perché lo ricordo. La memoria è l’unico luogo in cui è con me. Dimenticarlo significherebbe perderlo di nuovo, e per sempre. È qualcosa a cui non sono pronta; è qualcosa che non voglio che accada. Per questo, caro diario, ho deciso di affidare a te i miei ricordi; perché se quello scrigno è destinato a svuotarsi, preferisco che il suo contenuto venga trasferito da qualche altra parte invece di andare definitivamente perduto. Sei pronto a conoscere la mia storia? Nelle prossime pagine te la racconterò tutta, dall’inizio alla fine, e quando l’alzheimer l’avrà cancellata sarai tu a raccontarla a me.
A domani,
Rebecca.