Tornare indietro nel tempo non è mai semplice. Ti accorgi di quante cose avevi e di quante ora non ne hai più.
Ma si sa, la vita vissuta sembra sempre più bella di quella che si sta vivendo. Ci si perde facilmente nei ricordi felici che pensati ora immediatamente si trasformano in pensieri malinconici, a volte verrebbe quasi voglia di lasciarli lì, felici come allora, intatti ma dimenticati.
Osservati però alla giusta distanza, alcuni frammenti del passato hanno il potere di catturare momenti importanti per crearne di nuovi, simbolici nel tempo ma concreti in questo adesso quotidiano.
Hannibal è un ricordo felice e strano, uno di quei momenti che quando ti capitano li abbracci istantaneamente, non sai dove ti porteranno, forse da nessuna parte o forse proprio dove hai bisogno di essere portato.
A quel tempo non sapevo di dover decidere dove andare, non mi importavano quindi le conseguenze di quell’abbraccio. In Hannibal cercavo comunque qualcosa che non potevo cercare altrove, riconoscevo l’importanza della vita nonostante il nero delle scene.
Era così lontano dalla quotidianità, dalla realtà, che quasi riuscivo a vedere del vero in quell’assurdo.
Alcune occasioni prese al volo ti salvano dalla banalità del mondo, Hannibal mi è passato davanti e non ho fatto altro che lasciare che si manifestasse.
Attraverso l’eleganza e la poesia del male ha saputo rendere un mondo straordinariamente sbagliato in qualcosa di digeribile. Ha manifestato se stesso e la sua umanità un poco alla volta, come se stessimo conoscendo una persona dal vivo, con l’imbarazzo iniziale trasformato con il tempo in una perfetta storia da raccontare e da vivere. Una poesia fatta di versi apparentemente incomprensibili, ma che alla fine vivendoli, riusciamo a capirli, sono nostri e smettono così di essere difficili.
Sarebbe veramente molto più semplice, raccontare del mondo che smette di girare e della storia che improvvisamente non ha più un autore che possa scriverne la fine. Lì dove quel racconto si è fermato, su parole cariche di tormenti e domande insensate su una vita che dà poco rispetto a ciò che toglie. Sarebbe questa la prima cosa che verrebbe naturale associare alla trama di Hannibal. Ma no, alla fin fine ha ragione la mia amica e collega Sara Di Cerbo: è difficile rendere a parole una storia semplice come la vita. E nonostante tutto, Hannibal è stato vita.
Una vita vissuta a episodi, iniziata solo dopo essere caduti in un immenso abisso di stile. Ma pur sempre un’esistenza umana raccontata in tutto il suo umano splendore.
Il male è effettivamente un tabù, l’unico modo per poterlo capire è vederne i dettagli, quelli più macabri e inquietanti. Così si riesce a conoscerlo, a comprenderlo senza condividerlo, a indagarlo per evitarne gli effetti. Hannibal ha dato senso al nulla. A quel niente di un tutto troppo grande, troppo difficile da sentire da soli. Abbiamo smesso così, di fare finta che il male non possa prenderci mai, ormai lo abbiamo visto, siamo arrivati persino a rispettarlo, lo abbiamo amato.
È una via di fuga dal tutto. Hannibal è un abbraccio tra diverse sfumature di male, una storia che consuma ma da cui non riusciamo ad allontanarci.
Mi sono persa nel male di una storia disumana, un nulla di concreto che ha dato più di quanto il tempo presente e reale sa dare. Mi sono innamorata di un terribile gioco di ombre, mi sono innamorata dello sbaglio più grande che un essere umano è capace di fare. Ho scelto una storia d’amore irreale, surreale, che fa paura. Non regala nulla se non terrore, ma non è vero che chi ha paura sa di essere vivo? Probabilmente è così.