Avrei voluto titolare questo articolo ‘Urliamolo forte, che Hanno Ucciso L’Uomo Ragno è già una delle migliori serie italiane di sempre‘. Perchè è quello che penso, dopo soli 6 episodi. E di serie italiane negli anni ne ho viste e recensite parecchie. Però poi ho pensato che non è tanto questo il punto. Perchè un titolo (di un articolo, di un libro, di un album) è un po’ l’istantanea di quello che tu senti l’urgenza di comunicare, per poi approfondire dopo col testo: hai poche parole, devi essere più incisivo possibile. E ho pensato che non è questo quello di cui più mi interessa parlarvi. Per incasellare Hanno Ucciso L’Uomo Ragno in una qualche classifica ci sarà tempo e modo. Quello che conta di più, adesso, è che sto provando una sensazione che raramente ho provato in una manciata di anni di visioni, e ancor più raramente ho provato con una serie tv così breve: non è ancora finita, ma mi manca già. E so benissimo che siamo in tanti a provare questa sensazione. Quindi nel titolo, sempre quel famoso titolo, mi sono permesso di dire che ci manca. Prima ancora di finire, e nonostante in fondo sia appena iniziata.
Non sappiamo se Hanno Ucciso l’Uomo Ragno (disponibile su Sky e NOW) avrà una seconda stagione, ma tanto sappiamo che non cambierà quasi niente: ci mancherà lo stesso anche se dovesse tornare. Non è il prodotto ‘Hanno Ucciso l’Uomo Ragno‘ a mancarci già, o meglio non principalmente. Si tratta più di una grande sensazione condivisa di cui la serie si fa straordinario veicolo e sì, ha a che fare con la nostalgia ma non è nemmeno solo quello. E quando un prodotto audiovisivo riesce a fare questo, riesce ad andare oltre la definizione stessa di prodotto, trasformandosi in qualcosa di non definibile, non tecnicamente incasellabile, significa che è stato fatto un lavoro importantissimo.
Perchè Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, intanto, è una serie tv che è andata ben oltre l’essere banalmente biografica, ben oltre l’essere ‘la serie sugli 883’: la storia di Mauro e Max, di Cisco e Silvia, sembra la storia di molti di noi. Ed è un peccato che questa frase sia diventata un po’ pure una frase fatta, tendente a depotenziarsi, a svuotarsi sempre più del suo reale e più pregnante significato ogni volta che la si pronuncia. Perchè stavolta è vera.
Sembra la storia di molti di noi, intanto, perchè profuma di narrazione autentica. E non mi riferisco a quanto ciò che è stato portato in scena sull’ascesa degli 883 sia effettivamente reale (alcune cose sono vere, altre no), bensì a quella che è la parabola umana di due ragazzi divisi tra il coraggio e l’entusiasmo di provare a portare avanti i loro sogni e il tangibile timore del fallimento. Non c’è traccia di quella epicità fatta di plastica, di quella stucchevole percezione di dramma eroico che spesso inquina e in parte rovina le narrazioni biografiche legate a storie di successo: in Hanno Ucciso l’Uomo Ragno sembra appunto tutto vero, anche se alcune cose raccontate manco lo sono. È una serie che prova qualcosa, come se avesse vita e sentimenti propri, e non deve forzare nessun atto dimostrativo per trasmettertelo, per far provare quel qualcosa anche a te: è tutto naturale.
Max e Mauro perdono, vincono, vivono. Alternando stati di entusiastica incoscienza giovanile a stati di disillusione. Come due persone normali che sognano di fare qualcosa di straordinario, provano a fare qualcosa di straordinario e alla fine fanno qualcosa di straordinario, ma senza perdere mai di vista la realtà, senza perdere il contatto con loro stessi. Con sempre attiva in background quella sindrome dell’impostore (soprattutto Max) che li aiuta a rimanere umili, coi piedi ben piantati per terra mentre testa e cuore si proiettano in universi altri, talmente impensabili che anche quando ci entrano effettivamente dentro sembrano non rendersene neanche pienamente conto. Proprio loro, che si ritenevano due stronzi qualunque, alla fine si ritrovano nel bel mezzo del jet set milanese per fare un album commissionato da Cecchetto, in casa con Fiorello e Sandy Marton, mentre un numero imprecisato di modelle da copertina gli ruota attorno.
Pesci ancora piccoli buttati in mezzo al tentacolare oceano della Milano da bere, di punto in bianco, senza potersi fermare nemmeno “un attimo all’automatico” perchè bisogna fare tutto di fretta. E che solo nel solito bar, nel solito squallido e spoglio bar di provincia riescono a tirar fuori loro stessi, a far scoccare quella scintilla che a Milano proprio non ne voleva sapere di esplodere. A ‘creare’ storie, a proiettare e a farci vivere mondi minuscoli ma intensissimi.
Perchè sì, la provincia è minuscola rispetto al mondo fuori, o perlomeno così dicono, così credono loro, così crediamo anche noi. E in Hanno Ucciso l’Uomo Ragno più che mai la provincia assume la dimensione di concetto: allo stesso tempo trappola e rifugio, l’unico posto in cui Max e Mauro riescono a essere davvero loro, sempre loro, dalla tavernetta, a scrivere e a far sgorgare idee, unico laboratorio creativo possibile per due i cui unici superpoteri sono i loro sogni.
Tutto in questa serie sembra naturale, così reale da diventare tangibile, che pare quasi di averlo vissuto anche noi perchè in fondo l’abbiamo vissuto davvero anche noi. A qualsiasi immagine di Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, a qualsiasi pensiero si può associare qualcosa di familiare e no, non ha a che fare solo con la nostalgia: sono sensazioni in cui si può immergere anche chi come me in quegli anni non era nato nemmeno. In ogni espressione di Cisco – la scena davanti al Jolly Blu alla fine della quinta puntata è qualcosa di totalizzante – in ogni piega del linguaggio del corpo di Silvia, in ogni paranoia di Max e in ogni eccentrica e improvvisa reazione di Mauro ritroviamo via via pezzi di noi stessi di cui siamo pienamente coscienti, o che avevamo dimenticato chissà dove.
Sydney Sibilia e Sky hanno fatto qualcosa di grosso, quasi visionario, perchè noi ci aspettavamo una semplice serie biografica. Anche bella e ben messa in scena, date le firme che c’erano dietro, ma pur sempre una semplice serie biografica. Invece ci siamo trovati davanti questa roba qua. Che trascende la dimensione di prodotto al punto che chiamarla prodotto finisce per risultare svilente. Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, più che un prodotto, è un’idea. Ci fa viaggiare nei meandri della nostra immaginazione pensando a quello che abbiamo fatto, a quello che avremmo potuto fare, e soprattutto a quello che potremmo fare ancora.
Vibra di passato di quelle vibrazioni familiari e rassicuranti, lasciandoci addosso anche delle impercettibili ma solide scariche elettriche che sanno di futuro da addentare voracemente. Ci manca già, e intimamente non smetterà mai di mancarci anche quando non ci penseremo più ogni settimana, come adesso. Sarà con noi anche quando ci saremo dimenticati che ci manca e si allontanerà dalla routine delle nostre vite, inevitabilmente, tra qualche anno. Hanno Ucciso l’Uomo Ragno ci mancherà sempre. Perchè non ci era mai capitato di avere a che fare con dei ricordi che, in qualche incomprensibile e magico modo, profumassero anche di futuro.
Vincenzo Galdieri