1992. Due ragazzi di Pavia pubblicano il loro primo disco: Hanno Ucciso L’Uomo Ragno. Si chiamano Max Pezzali – il nome celebre, quello che a distanza di oltre 20 anni è ancora familiare alle orecchie di tutti – e Mauro Repetto – il nome meno conosciuto, quello per veri intenditori, per chi quegli anni li ha vissuti e amati, cantati e ballati. Insieme sono gli 883, nome di una moto e di un gruppo musicale che da quell’anno ha segnato il panorama italiano. Hanno Ucciso L’Uomo Ragno è invece il nome del loro primo disco e della loro prima vera hit, ma anche della serie Sky Original che di Max Pezzali e Mauro Repetto racconta l’amicizia, la comune passione per la musica e le origini del successo. Un successo che rappresenta pienamente la sua epoca, quegli anni Novanta di cui abbiamo una nostalgia pazza.
Quanti di voi, cari lettori e care lettrici di Hall of Series, erano già nati e cresciuti in quell’ormai lontano 1992? Io, per esempio, non c’ero. Quando gli 883 nella loro formazione originale si imponevano sul palco del Festivalbar o all’Aquafan di Riccione, così diversi da ciò che già c’era e contemporaneamente così rappresentativi dei bisogni di una grande fetta dei giovani dell’epoca, io non ero neanche contemplata dai miei genitori. La fortuna però è stata dalla mia. Qualche anno dopo, nel 1998, mia madre ha scelto per me una babysitter nata nel 1979, reduce da un’adolescenza passata a suon di Laura Pausini, Giorgia e – ça va sans dire – gli 883. Ottima scelta, devo dire.
Ho cominciato a cantare le loro canzoni.
Nord sud ovest est, Come mai e quella Hanno Ucciso l’Uomo Ragno che proprio non sapevo fosse la prima. Poi anche tutte le altre, quelle di una formazione diversa della quale Mauro Repetto non faceva più parte. Ma anche questo io, nella mia totale incoscienza, non lo sapevo. Perché per chi la nascita degli 883 non l’ha vissuta, gli 883 erano Max Pezzali e un altro. Per alcuni, Max Pezzali e il ballerino. Un’intera generazione di persone, corrispondente alla Gen Z o poco più, totalmente ignare delle origini di canzoni che hanno fatto la storia e che continuiamo a cantare a squarciagola. Perché “Solita notte da lupi nel Bronx” la cantiamo un po’ tutti, ma della coppia che di questo incipit ha fatto la base della propria carriera musicale sappiamo molto poco. O meglio, sapevamo. Perché per fortuna Hanno Ucciso l’Uomo Ragno ha cambiato le carte in tavola.
Non la canzone ma la serie, per darne almeno una volta il titolo ufficiale completo Hanno Ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883, quella che forse non stavamo aspettando ma della quale già non possiamo più fare a meno. È arrivata così, semplicemente. E altrettanto semplicemente ha conquistato i cuori dei fan degli 883 e quelli di chi le loro canzoni non le ascoltava ma si è incuriosito ugualmente. Magari, proprio perché amante o nostalgico degli anni Novanta. Quegli anni Novanta raccontati così bene nei colori, nello stile, nella vita che si faceva. Una realtà che oggi – quasi paradossalmente – sembra così distante ma anche così vicina. Una realtà che oggi forse non saremmo capaci di vivere, ma che contemporaneamente un po’ ci manca.
A raccontarli così bene sono Sydney Sibilia, Alice Filippi e Francesco Ebbasta.
Tre registi, il primo anche ideatore e sceneggiatore, che hanno fatto un vero e proprio miracolo, riuscendo a incollare agli schermi tre categorie di persone: chi gli anni Novanta li ha vissuti in prima persona come adolescente o adulto, chi ne fa casa di ricordi d’infanzia e chi li ha vissuti solo tramite i racconti di chi c’era. Insomma, la Gen Z di cui sopra. Ma come hanno fatto tre registi degli anni Ottanta, che in quel famoso 1992 erano ancora bambini, a fare un all in di questa portata? Credo che siano due gli elementi da tenere in considerazione.
Il primo riguarda l’aspetto più formale della realizzazione di Hanno Ucciso l’Uomo Ragno. Considerando quanto la strada fosse spianata dal punto di vista musicale – le canzoni degli 883 la fanno ovviamente da padrone, affiancate da grandi classici e ricordi meno vividi (voi la ricordavate Brutta di Alessandro Canino?) -, l’aspetto visivo è riuscito a starci dietro in ogni momento. I colori desaturati dai toni mai pieni ci riportano a tutte quelle videocassette che noi o i nostri genitori abbiamo girato all’epoca, quelle un po’ sgranate che, se non abbiamo fatto diventare dvd o digitalizzato a tempo debito con ogni probabilità non vedremo mai più. Uno stile visivo che in realtà Francesco Ebbasta – per chi non lo sapesse parte integrante dei The Jackal fin dalle loro origini e regista della serie Pesci Piccoli – aveva già sperimentato con Generazione 56k, un esperimento sicuramente meno celebre ma non per questo meno riuscito.
Il secondo elemento riguarda invece tanto l’ambientazione quanto la narrazione di Hanno Ucciso l’Uomo Ragno.
Sto parlando della semplicità, chiave di lettura primaria della serie. La semplicità che Max usa nel raccontare la sua realtà di adolescente in una città come Pavia, che in inverno non è proprio una metropoli e in estate diventa talmente vuota da trasformare un funerale in un luogo di socialità. La semplicità con la quale Max si innamora di una ragazza e scrive per lei una canzone senza immaginare che gli avrebbe cambiato la vita. La stessa semplicità con cui poi incontra Mauro, all’inizio di un anno scolastico che non promette niente di buono e invece dà a un normale adolescente la possibilità di realizzare un sogno. E diciamolo, anche la semplicità di un sistema musicale e dell’intrattenimento meno saturo, meno pieno e un po’ più vero. Un sistema in cui anche I Pop potevano trovare il loro spazio.
Hanno Ucciso l’Uomo Ragno è una storia la cui semplicità si percepisce all’udito e alla vista. Sta nelle parole ancora ingenue dei suoi giovani protagonisti e sta nei luoghi che questi protagonisti calcano. La vediamo nelle case di una volta, quelle con il telefono fisso e le urla dei genitori ai figli e dei figli ai genitori: “Ti vogliono al telefono!”. La vediamo nella sala giochi, tra i banchi di scuola e su un palco, meno costruito e illuminato di come siamo abituati a vederne oggi. Ancora, la vediamo negli spostamenti dalla provincia alla città, complessi come viaggi intercontinentali.
È difficile, oggi come oggi, ritrovare questa semplicità nelle nostre scelte quotidiane.
Eppure, a quanto pare, questa semplicità ci manca. E ci manca non poco, anche se oggi mai riusciremmo a viverla. O forse, ci manca proprio perché oggi non riusciremmo a viverla. Niente più deca, niente più anni d’oro del grande Real. Niente più motorini lentissimi e viaggi intraregionali che sembrano intercontinentali. Almeno fino a quando non accendiamo la tv.