Le serie tv adolescenziali non vanno viste solo da adolescenti: ecco una delle idee sulla serialità che nessuno potrà mai sradicarmi dalla mente. Quelle adolescenziali sono serie delle quali abbiamo bisogno tutti. Gli adolescenti, va da sé, perché essendoci dentro possono ritrovare alcuni pattern delle loro vite. O, più semplicemente, possono sognare. Le persone più adulte, invece, possono usarle come modo per capire meglio un momento che non è il loro, quello della contemporaneità vista con gli occhi di chi per la prima volta sta facendo esperienza diretta del mondo. E poi, non meno importante, le serie adolescenziali sono le migliori comfort series. In quanto giovane adulta ormai lontana dall’adolescenza mi sento dunque estremamente autorizzata a sedermi sul divano, mettermi sulle gambe una copertina, accendere la tv e guardare le mie serie adolescenziali. Ed è proprio quello che recentemente ho fatto mandando in play Heartstopper.
Giunta a quota tre stagioni – l’ultima è stata distribuita da Netflix il 3 ottobre di quest’anno -, Heartstopper è un adattamento dell’omonima graphic novel di Alice Oseman. Al centro della trama ci sono Nick e Charlie, liceali che all’inizio della serie cominciano un’amicizia che si trasforma in qualcosa di più. Arrivati a questo punto, sono invece una coppia affiatata e innamorata, circondata da un gruppo di amici ben assortito. Ci sono almeno due motivi per i quali, pur avendola cominciata per caso, mi sono affezionata a questa serie e non l’ho più lasciata. Il primo è legato ai temi trattati, argomenti di una certa attualità e rilevanza nel mondo di oggi, dall’orientamento sessuale all’identità di genere passando per i disturbi del comportamento alimentare. Il secondo è legato invece allo stile: è un racconto dolce, caldo, che fa bene al cuore.
Il mondo adolescenziale è da sempre al centro della serialità
Gli adolescenti sono il pubblico perfetto. Appassionati e passionali, gli adolescenti sono pronti ad affezionarsi e hanno anche un bel po’ di tempo da dedicare alle proprie passioni, serie tv comprese. Ma soprattutto, l’adolescenza è forse la fase della vita più interessante di tutte, sicuramente quella dalla quale provengono più spunti narrativi. Gli adolescenti sono irrequieti, in continuo cambiamento, in quel periodo in cui il giorno prima sembrano bambini e quello dopo sono praticamente degli adulti. O per lo meno, cominciano a sperimentare il mondo come tali. I primi amori, le prime farfalle nello stomaco e quelle emozioni che speriamo di continuare a provare da lì all’eternità: l’adolescenza è la scoperta del nuovo, un mix di sensazioni ed esperienze che offrono cento, mille, infinite possibilità di racconto.
Ma l’adolescenza è anche tanto altro. È la scoperta di se stessi e la paura di dover fare i conti con una versione di sé che non si riteneva possibile. È la paura di relazionarsi agli altri, di esprimersi ed esporsi, è la sensazione di non essere capiti perché mai nessuno può essersi sentito così. L’adolescenza sono le prime incomprensioni, i primi timori e i primi rifiuti, sono tutti i dubbi e i litigi con i genitori. È quel periodo in cui il giorno prima giochiamo come bambini e il giorno dopo ci chiediamo per la prima volta: “Ma chi sono io? E cosa voglio diventare?“. E anche in questo caso le possibilità di racconto sono talmente tante che mai si riuscirà a svilupparle tutte, considerando anche il fatto che, con l’avanzare dei tempi, il modo in cui questa viene vissuta cambia radicalmente.
Da che mondo è mondo, da che serie è serie, dell’adolescenza si parla e si racconta tantissimo
Eppure per tanto tempo se ne è parlato in maniera parziale, o comunque limitata a una certa visione. Per quanto in evoluzione, per tanto – troppo – tempo abbiamo assistito a un racconto adolescenziale fatto di relazioni non proprio sane e primi approcci con sesso, alcol e droghe, nonché di differenziazione sociale e voglia di apparire. E basta. Il punto non è che questi temi non siano reali. Il punto è che ci sono stati proposti in modo incompleto, senza quasi mai entrare nel profondo di ciò che i personaggi adolescenti, specchio degli adolescenti veri, potevano provare. E, come se non bastasse, promuovendo modelli sbagliati che per tanto tempo noi spettatori, millennials in primis, abbiamo preso per giusti. Perché di alcune cose non ci parlava nessuno, e noi ci affidavamo a ciò che avevamo per tentare di capirci qualcosa.
Aspiravamo a diventare i protagonisti di Gossip Girl o The O.C., volevamo relazioni come quella tra Chuck e Blair o tra Ryan e Marissa. Pretendevamo la totale indipendenza delle nostre scelte e la possibilità di fare praticamente qualunque cosa ci passasse per la testa. I nostri corrispettivi seriali potevano farlo, per quale motivo non avremmo potuto anche noi? E intanto, presi com’eravamo dalla voglia di assomigliare agli adolescenti praticamente adulti che vedevamo sui piccoli schermi, dimenticavamo di vivere la nostra, di adolescenza. Quella vera. Heartstopper però fa parte di una generazione diversa, di un nuovo paradigma della serialità che proprio Netflix ha aiutato a diffondere. Non risparmia le riflessioni da sempre tipiche del mondo adolescenziale, tra prime relazioni, sesso e rapporto genitori-figli. Riesce però a integrarle e a raccontarle con una leggerezza, un tatto e una delicatezza davvero rari tanto nel mondo dell’intrattenimento quanto nella vita.
Prendiamo per esempio il rapporto tra Nick e Charlie e le rispettive famiglie, due facce della stessa medaglia in Heartstopper
Il rapporto tra Nick e sua madre è quanto di più dolce e puro si sia mai visto. Olivia Colman dà per due stagioni – e spero vivamente riprenda a dare nella quarta – il volto a una donna che fa da madre e da padre ai suoi figli e che si ritrova anche a dover fare da mediatrice tra loro. Una donna che si dimostra sempre comprensiva, pienamente in linea con i bisogni del figlio, pronta a supportarlo nella piena realizzazione di sé. Questo rapporto madre-figlio, che si trasforma nella terza stagione in quello tra Nick e sua zia, è la rappresentazione di un sostegno genitoriale possibile, nonché la prova che aprirsi con la propria famiglia non necessariamente significa andare contro un muro. Una prova della quale gli adolescenti di oggi hanno bisogno, e della quale sinceramente a mio tempo avrei avuto bisogno anche io.
Dall’altra parte abbiamo invece Charlie, che non si sente compreso e in diverse occasioni davvero non lo è. Il rapporto con sua madre è complesso, fatto di negazioni e di preoccupazioni che si riversano sul figlio nel modo sbagliato. Genitori e figlio sono descritti e narrati nella loro complessità di persone che cercano di spiegarsi e di comprendersi anche se non sempre ci riescono. Parlano, litigano, ma in nessuna occasione questi momenti diventano drammi insormontabili: dialogo, voglia di aprirsi e di capirsi restano sempre al centro. E anche in questo caso il punto è sempre uno: non è detto che quella tra genitori e figli sia una relazione che fila sempre liscia, ma anche i momenti peggiori si possono superare quando alla base c’è un affetto vero. Non sempre litigare significa avere dei cattivi genitori, e anche questa è una lezione che avrei voluto sentire.
Ma la verità è che parlare dei rapporti in questo modo è possibile solo se si indaga nelle profondità di ciò che i personaggi provano
Una cosa che Heartstopper fa tenendo sempre ben lontani i giudizi di valore. Non esiste un modo giusto o sbagliato di essere: esistono semplicemente le persone che siamo, complesse ma sempre meritevoli di comprensione. Nella prima stagione Nick si guarda dentro e capisce di essere bisessuale, ha paura e teme che possa essere un problema ma ha attorno il giusto paracadute, quelle persone che gli ricordano che non è così. Nella seconda stagione Isaac si sente diverso dai suoi amici, tutti presi dalle loro relazioni e lui invece così indifferente all’amore e al romanticismo. Ci metterà un po’ ma anche lui capirà che anche questo va bene. Nella terza stagione è invece Darcy a fare i conti con il proprio io più profondo, cominciando a riflettere sulla sua identità di genere: lungi dal trovare disapprovazione, comincerà a parlare di sé come più ritiene opportuno.
Sono solo tre degli infiniti esempi che potrei fare del modo in cui Heartstopper afferma e ripete che ognuno di noi ha tutto il diritto di essere se stesso, di esprimersi, identificarsi e muovere i propri passi nel mondo come meglio crede. Ce lo dice attraverso storie di personaggi che rappresentano tutte quelle tematiche oggi attuali, ma fino a qualche anno fa quasi impensabili: orientamento sessuale, identità di genere, disturbi del comportamento alimentare, autolesionismo, depressione riescono a trovare ognuno il suo spazio nel racconto. Ma per quanto detta così possa sembrare complicata o addirittura un’accozzaglia di tematiche messe insieme perché proprio si deve, questa serie ha il grande potere di non finire mai nella retorica becera.
Heartstopper ci fa sentire compresi
Adolescenti e adulti, grandi e piccoli, chi si mette davanti alla tv a godersi la sua puntata sa bene che, qualunque cosa accada tra l’inizio e la fine dell’episodio, non ci sarà un solo momento nel quale non si sentirà capito. E questo a prescindere dal fatto di essere o meno parte della comunità LGBTQI+. Perché grazie alla varietà umana che rappresenta e alla verità che mette nel modo di raccontarla, Heartstopper dimostra puntata dopo puntata, stagione dopo stagione, l’incredibile capacità di tranquillizzare gli spettatori. Ci dice che comunque vada, qualunque cosa accada, per quanto ci sembra che tutto stia andando a rotoli, andrà tutto bene. E ci dà quella carezza che troppo spesso non siamo capaci di darci da soli, ma della quale abbiamo tutti – adolescenti e non – davvero bisogno.