Attenzione: evita la lettura se non vuoi imbatterti in spoiler, anche non voluti, di High Fidelity
Esce nel febbraio del 2020 ma ancora oggi High Fidelity riesce a conquistare. Perché? La risposta più facile (che di solito è anche quella giusta) sarebbe la colonna sonora, quella musica che non solo accompagna la serie ma che ne diventa protagonista indiscussa. E, se vogliamo, anche la più interessante. Senza nulla togliere a Zoe Kravitz che dà prova di essere una bravissima attrice che può parlare anche con uno sguardo, data l’intensità del suo, ma che rimane forse troppo schiacciata da un’atmosfera ben più delineata dei personaggi stessi. High Fidelity va vista, ci teniamo ad anticipare il finale: è bella, è piacevole, ne vale sicuramente la pena. Ma forse va analizzata nel dettaglio per capire quello che davvero ci conquista di High Fidelity, che ha la qualità di non essere scontata nemmeno in questo. All’inizio siamo attratti dall’attrice protagonista, curiosi di vederla in panni del tutto nuovi; poi in un secondo momento ci soffermiamo sulla narrazione amorosa e ironica, sempre newyorkese, sempre con un piccolo sentore di Sex and The City che può pesare come piacere tantissimo; alla fine veniamo completamente assorti da quella musica che non fa mai da sfondo ma che partecipa in maniera sempre attiva e che ci fa davvero capire il senso di quello che stiamo vedendo.
High Fidelity è questo: un mix di emozioni che si colgono solo dopo averle provate. Se nella prima puntata pensiamo di aver capito tutto, High Fidelity ci dà un sonoro schiaffo in faccia e ci fa capire subito che non solo non abbiamo capito niente ma che forse non lo capiremo nemmeno arrivati all’ultima puntata. Perché così deve essere: proprio come la sua protagonista Rob, incasinata e confusa in una città che non la culla affatto e che la circonda di relazioni complesse, High Fidelity è stravolgimento ma anche passione, casino ma anche razionalità, è molto rock ma è anche molto pop. Non che il pop faccia male, anzi. La serie sembra parlare molto al suo pubblico, complice la rottura della quarta parete che permette a Rob di parlare con noi, di spiegarci cosa fa e perché lo fa, o almeno di provarci. L’espediente in questione è difficile da utilizzare ma, se ben dosato, crea un legame con lo spettatore fuori dal comune. Nel caso di High Fidelity non pesa, rimane quasi marginale e viene utilizzato solo dove serve, senza mai strafare. Perché è giusto entrare nei panni di Rob ma forse è giusto anche che rimaniamo nei nostri panni per immedesimarci meglio nelle azioni di Rob.
E poi c’è la musica: in High Fidelity non c’è una colonna sonora, c’è un vero e proprio totem attorno a cui girano tutti gli altri elementi, che siano personaggi o oggetti, emozioni o animali. Tutto gravita intorno alla musica, su cui si basa la vita della protagonista. Da Zoe Kravitz ce lo aspettiamo, come dire, è credibile. Ma Rob non fa musica, né la produce, semplicemente la ama, la vende e vive della sua rendita. Tanto è vero che la musica per Rob è sostentamento, sia fisico che emotivo; pare essere l’unico posto dove sa di essere se stessa, dove sa di poter abbassare le difese, dove sa che non ha limiti. E, in fondo, dove l’unica cosa che conta è se stessa e, al massimo, il suo stereo. Per il resto del tempo Rob è ossessionata dalla sua vita amorosa, anche se in un modo molto diverso da quello che siamo abituati a vedere. La sua vita non è frenetica e non gira attorno al lavoro (come può accadere all’iconica Carrie Bradshaw cui molte serie si sono ispirate negli anni). La vita di Rob ha tante sfumature ma l’insana ricerca dell’amore non la molla mai, le turbe che la accompagnano per tutta la serie sono principalmente legate a questo tema.
Precisiamo: la narrazione amorosa non pesa, non ci fa pentire di vedere l’ennesima serie tv sull’amore. È ben scritta e soprattutto ben dosata, soprattutto attraverso intervalli musicali oltre che temporali ma anche attraverso degli espedienti (come quello della playlist, per farne un esempio musicale inerente) che ce la rendono sempre godibile e non scontata. Il che non è facile, data la grande mole di serie tv incentrate sul tema. Eppure, Rob vive l’amore in un modo tutto suo, pieno di rancore ma anche di malinconia, un modo che la contraddistingue anche e soprattutto come persona. La scena newyorkese di High Fidelity è un piccolo spicchio di realtà con la quale Rob cerca di interfacciarsi in modo anche piuttosto maldestro, ma che le permette di essere libera. Una delle sensazioni che High Fidelity trasmette è proprio quella di libertà, un senso di leggerezza che non si associa, però, alla superficialità: gira tutto intorno all’amore? Sì, ma in modo libero, creativo, musicale, diverso. È come se l’amore fosse la leva principale che aiuta qualsiasi altro elemento a reagire e a venire fuori in tutta la sua bellezza. E Rob ne è consapevole in ogni istante, sa che il suo mondo ha bisogno di quella leva. Purché abbia sempre un buon sottofondo musicale.
E, in fondo, l’amore in High Fidelity non è solo: attraverso i suoi personaggi si delinea molto bene. C’è Cherise che ama la musica, ama molto se stesse e ama la sua sicurezza; c’è Simon che ama la dolcezza, ama conoscere musica nuova e ama anche conoscere gente nuova. E poi c’è Rob che ci descrive perfettamente ogni singola cosa o persona che abbia mai amato, sempre attraverso la musica, ormai sembra quasi scontato dirlo. Così ci racconta sé stessa attraverso le sue relazioni, spesso arrivando a definirsi attraverso di esse (a volte anche troppo), arrivando a spiegarsi delle cose di se stessa solo in base ad esse. Il senso di autocritica in High Fidelity è alto e la sua protagonista fa di questo tema uno stendardo, andando a scandagliare ogni minima parte del suo essere, spesso in maniera molto severa e giudicante. Il suo è un punto di vista molto interessante, che colpisce sicuramente per la sua unicità e infatti ci vuole del tempo per riuscire a cogliere il suo mood, la sua attitudine. High Fidelity è bella anche per questo, la sua spietatezza che fa il paio con una forte malinconia arriva e fa arrivare un messaggio anche piuttosto importante: l’amore è importante ma conoscere la propria anima lo è molto di più.
Rob, Cherise, Simon e tutti quelli che gravitano attorno a questo flusso musicale imperterrito e incantevole, definiscono High Fidelity e ce la fanno amare per quella che è: un’ottima serie con una bellissima idea di base, con un una fantastica colonna sonora (che andrete sicuramente a recuperare appena vedrete la primissima puntata) e con un piglio malinconico che non sempre si vede sullo schermo e che non è scontato possa piacere. Ma se doveste essere appassionati al genere, High Fidelity fa per voi. Quasi dimenticavamo: la serie, i più attenti se ne saranno accorti, è la libera rivisitazione del fantastico romanzo omonimo di Nick Hornby. La scelta di rivelarlo sul finale di questo articolo è stata ovviamente ponderata. Ben lontani dal farvi un torto, la decisione è volta più che altro a non farvi partire prevenuti, a lasciarvi trasportare prima dall’atmosfera e poi dalla storia stessa. Che è un po’ l’operazione che fa High Fidelity, è un po’ quello che fa la nostra Rob, è in fondo quello che cerchiamo tutti quanti di fare tutti i giorni; galleggiare su di una scia fatta di musica, amore e malinconia.