Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla sesta stagione di House of Cards
E dire che House of Cards aveva superato sorprendentemente il licenziamento di Kevin Spacey e la conseguente uccisione off-screen di Frank Underwood. Un’impresa non da poco, se si pensa che abbiamo a che fare con uno dei migliori attori degli ultimi anni e uno dei migliori personaggi della storia delle serie tv, ma gli sceneggiatori ce l’avevano fatta. Avevano cucito intorno alla bravissima Robin Wright un intreccio intrigante e soddisfacente, rendendo in modo credibile l’approccio di Claire Hale alla Presidenza degli Stati Uniti e la contrapposizione feroce con Doug Stamper, i fratelli Shepherd e, soprattutto, gli spettri del marito defunto.
I primi quattro episodi della sesta e ultima stagione di House of Cards, culminati con lo spettacolare Chapter 69 (degno dei migliori capitoli dell’era Willimon) e lo straordinario confronto tra Claire e il presidente russo Petrov, ci avevano sorpreso positivamente, lasciandoci sperare in un finale all’altezza del gravoso impegno. Dopo il giro di boa, tuttavia, si è spezzato qualcosa e le valutazioni parziali sono state capovolte. La trama si è infittita di colpi di scena sempre meno credibili, buchi inspiegabili e filoni da soap, fino ad arrivare ad una conclusione grottesca dal flebile respiro shakespeariano che ha lasciato, molto eufemisticamente, l’amaro in bocca.
Il fantasma ingombrante di Frank Underwood, vero protagonista dell’ultima stagione di House of Cards, è riemerso con forza nel momento in cui il lavoro di costruzione era riuscito, nei sottili limiti del possibile, ad accantonarlo. Poi è arrivato il Chapter 70 e sono emersi i problemi strutturali che ci hanno portato all’esalazione dell’ultimo respiro di Doug Stamper e di una serie tv che ha mostrato al mondo la forza di Netflix per cinque indimenticabili anni. L’assurdo e poco credibile azzeramento improvviso del Gabinetto presidenziale, seguito all’altrettanto surreale complotto ordito dagli Shepherd, ci ha fatto storcere il naso. Il successivo annuncio della gravidanza di Claire, nel Chapter 71, è invece il definitivo salto dello squalo di cui avremmo fatto volentieri a meno.
Un plot twist dirompente, messo in scena con eleganza ma gestito malissimo nelle tempistiche e negli sviluppi. Pur mettendo da parte i dubbi sulle possibilità reali che Claire avesse di rimanere incinta e sulle risposte assenti riguardo l’identità del vero padre del nascituro (probabilmente Tom Yates), la maternità di Claire è una soluzione narrativa debolissima e inconsistente, degna delle peggiori soap opera. Anche alla luce della definizione speculare del personaggio rispetto alle prime stagioni di House of Cards, e della risoluzione finale del caso legato all’eredità lasciata da Frank Underwood. Purtroppo, oltretutto, non è la cosa peggiore che abbiamo visto negli ultimi quattro episodi: al salto dello squalo, infatti. è seguito un declino fragoroso.
Le trame e le sottotrame ben avviate a inizio stagione sono crollate, come un instabile castello di carte, nel momento in cui si sono sviluppate e chiuse frettolosamente. Claire Underwood, protagonista di una splendida evoluzione nei primi 65 capitoli, grandiosa al punto da giustificare in parte persino l’uscita di scena di Frank, ha interpretato nell’ultima fase l’ingeneroso ruolo della macchietta del marito. Ha dato volto e anima a gesti, azioni e parole che non hanno celato un genio machiavellico, ma solo ed esclusivamente la necessità di colpire e impressionare continuamente gli spettatori, indifferenti anche di fronte allo scorrere continuo del sangue dei nemici. Claire ha avuto un piano vincente in ogni occasione, ma in ogni occasione siamo rimasti perplessi.
Le morti contemporanee di Catherine Durant, Tom Hammerschimdt e Jane Davis hanno allo stesso tempo chiuso semplicisticamente il cerchio, lasciando dietro di loro una spirale gigantesca di questioni irrisolte, azioni inspiegabili e situazioni senza una reale finalità narrativa. Così come gli articoli della Skorsky, l’ambiguità mai lineare di Nathan, la scoperta delle origini di Duncan e, soprattutto, il piano finale dei temutissimi Shepherd, rilevatosi del tutto inconsistente e dalle finalità fumose. Un grande bluff, e un peccato: i due fratelli avevano le potenzialità per inserirsi perfettamente in una trama solida e coerente, ma sono stati risucchiati da una miriade di colpi di scena e intrighi fini a sé.
A tutto questo si aggiunge la rivelazione conclusiva, la pietra tombale su una serie che ha raccontato meglio di chiunque altro il mondo della politica: Frank Underwood è morto per mano del fido Doug Stemper. È apprezzabile la simmetricità con la quale House of Cards ha chiuso con una sovrapposizione al pilot: nel Chapter 1, infatti, Frank aveva posto fine alle sofferenze di un cane e altrettanto fa, per molti versi, Claire, nel momento in cui colpisce a morte il “segugio” del marito pronunciando le medesime parole (“No more pain”). Ma lascia interdetti un aspetto: Doug preferisce sacrificare l’uomo per preservare la memoria collettiva nei confronti dello stesso, ma non ci si spiega perché abbia deciso in quel momento di tenere in vita l’odiata moglie.
Una scelta pretestuosa, fatta in nome di una stagione e una scena finale che con ogni probabilità prevedevano inizialmente la presenza di Frank al posto di Doug. E, di conseguenza, di un finale insoddisfacente, mestamente anticlimatico. Lontanissimo dai fasti storici di House of Cards, tanto da volerlo dimenticare al più presto e negare l’evidenza: abbiamo visto davvero questo ciclo di episodi? Oppure Francis J. Underwood, 46esimo Presidente degli Stati Uniti, non morirà mai e lotterà per sempre con l’irriverente 47esima, pronta ad affrontare i primi cento giorni del suo mandato? Facciamo finta che sia andata così, anche se non avremmo avuto un vero finale. Sarebbe stato, quantomeno, il vero House of Cards.
Antonio Casu
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