Metabolizzazione. Secondo la Treccani, “elaborare fino ad assimilare completamente idee, concetti e modi di essere”. La reazione a un trauma, per esempio. A un lutto, in particolare. La metabolizzazione di un lutto passa attraverso cinque stadi canonici e passa, soprattutto, attraverso il tempo. Un tempo che non sempre c’è, se il lutto è l’innesco di una guerra. Una guerra in cui la persona in lutto non è solo parte in causa: è il soggetto principale. L’elemento principe, direbbe qualcuno. La regina, aggiungiamo noi. Metabolizzazione e azione, per Rhaenyra Targaryen in House of the Dragon 2×01.
La guida di un regno spaccato in due parti, e una madre spaccata in mille pezzi. Devastata, ma non distrutta. Ferita, ma non uccisa. Metabolizzazione per la morte atroce di un figlio, l’amato Lucerys. Vittima della distruzione di un caso che asseconda il caos. E di un’azione a cui segue altra azione, tagliando i cinque stadi e disvelando la cruda realtà sotto gli occhi di una donna che non può permettersi il tragico lusso dell’attesa.
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Lo sa Rhaenyra, pur nella nebbia di un dolore che mal si concilia col ruolo che ricopre. E lo sa anche Alicent, dall’altra parte. Accende un misero cero tra un’esitazione e l’altra, conscia delle conseguenze dell’azione che rapidamente si innescano in House of the Dragon 2×01.
La metabolizzazione, rimandata a chissà quando, lascia così spazio all’istinto, agli inevitabili vagiti di un conflitto destinato all’emersione dei soli vinti. Istinto svuotato della ragione, tra due schieramenti ormai divisi senza più spazio per la mediazione. Ancora l’azione, nella sua cruda purezza. Dentro ogni parola che accompagna la partita a scacchi che caratterizza House of the Dragon 2×01, ogni volta con un significato profondamente diverso. La mediazione è fallita e l’ultimo padre saggio è stato sepolto, dopo esser stato avvelenato dal cinico lancio di una monetina che farà sempre il suo corso. Il destino si riscrive un milione di volte per ripresentarsi attraverso la camaleontica regia del fato. Un fato che darà ancora il medesimo significato all’atavica idea di “Targaryen”, imposta dalla storia fin dall’alba dei tempi.
Lo sappiamo da tempo, lo sappiamo ancora. E la nuova sigla di House of the Dragon lo ricorda senza ricorrere a dettagli sibillini.
Tesse una tela inesorabile che ripercorre le tappe principali della casata nel corso del tempo. La storia si accartoccia in pochi istanti attraverso la bellezza di arazzi che riconsegnano agli eredi il peso di un passato incombente: il presente è scritto, il futuro previsto. Già la previsione. La predizione di un corso che conosciamo già ma in fondo potremmo non conoscere ancora nei suoi dettagli più decisivi. La predizione della daga, ancora: la sua assenza dalla scena in House of the Dragon 2×01 evoca una presenza nei silenzi dei non detti, suggeriti agli spettatori dentro ogni sguardo o sospiro dei protagonisti sul palcoscenico. Quella maledetta daga, finita in mano all’Aegon sbagliato, e la frase che accompagna gli inconsapevoli impulsi all’azione di principi, regine e comparse: ”Dal mio sangue viene il principe che fu promesso, e la sua volontà sarà il Canto del Ghiaccio e del Fuoco”.
Il fuoco, acceso sotto la cenere che cova, e il sangue.
Sangue predetto per l’ennesima volta da Helaena Targaryen, per l’ennesima volta inascoltata dai più. Soggetto, lei, di una tragedia irrealizzabile che non dovrebbe mai essere parte della vita di una madre. Fraintesa sulla via della follia, ignorata sul pericoloso sentiero della veggenza. Aveva avvisato tutti, ora come sempre. Aveva chiamato il sangue e la distruzione, l’azione dei topi e il pericolo imminente, ma la promessa del principe è solo un bluff: la storia era già scritta prima ancora di esser stata immaginata o anche solo pensata, col rosso del sangue di un figlio. Un altro. Occhio per occhio, figlio per figlio. Azione, sotterranea: Rhaenyra indica la direzione con una sola frase, Daemon esegue. Sposta la cenere e accende la pira di un povero innocente, reo di essere erede della storia sbagliata.
Canta, il fuoco, mentre i draghi tacciono e si lasciano andare a un solo grido di dolore: assecondano il lutto con rara sensibilità e sono gli unici ad aver spazio per una metabolizzazione che avrebbe dato un senso diverso a ogni reazione.
Il silenzio e i non detti schiudono l’intera narrazione di House of the Dragon 2×01, soffocando l’azione anche nella scena regina dell’episodio, attesa da anni e messa in scena con una chiave intimistica sorprendente e spiazzante, molto diversa da quella che aveva evocato Fire and Blood in alcune tra le pagine più importanti mai scritte da Martin. Mentre Alicent, frustrata e tormentata dalla gravosa risposta alle macchinazioni della sua casata, si lascia andare all’ennesimo amplesso disperato col tossico amante, si consuma una vendetta che non potrà non avere altra risposta al di fuori del fuoco incrociato con altro fuoco. Tra l’amore e la morte, va in scena il dramma evocato dall’orrorifico rumore di una vita che spira.
Predizioni inascoltate da orecchie assenti, pedine di uno scacchiere in cui la storia e il tempo giocano con le identità per lasciare il proscenio ai soli cognomi.
Canta, il fuoco. Schiacciando le prospettive tra l’aria e la terra nei bassifondi dell’azione sotterranea, favorita dalle tenebre e da una terribile notte che non lascerà prigionieri. Canta il fuoco e offusca le prospettive più ampie, giocando sui primi piani per celare il mondo che si aggira intorno alle azioni degli interpreti, ignari del gioco al quale stiano davvero giocando. Il cielo non c’è se non fuori, lontano. Là dove il fuoco cede il passo al ghiaccio, e agli scenari millenari di un dramma che nel silenzio costruisce la sua forza implacabile. Lavora sulla sintesi, House of the Dragon 2×01. E bastano allora pochi minuti, i più importanti perché arrivano nel corso dell’apertura della stagione, per ribaltare ancora le prospettive. Per raccontare senza raccontare, raccontando ogni cosa.
Dal mistero della daga si torna ancora in un mondo lontano. Quel mondo lontano che incarna lo spirito più cupo di una narrazione destinata a riscrivere il futuro, e a farci rivedere l’ultima stagione di Game of Thrones con occhi completamente diversi. Tre minuti, al massimo quattro. Una parola, fondamentale: Inverno. Alla Barriera, là dove il mondo dimenticato segna le priorità reali, i custodi della storia si disinteressano al gioco dei troni e richiamano l’attenzione sui pericoli di un mondo che per i più non esiste nemmeno.
Nel silenzio di una prospettiva che sorvola l’ampiezza di una terra tragicamente inesplorata, House of the Dragon ricorda a tutti di voler essere molto più di un prequel.
Molto più della drammatica esplorazione di una guerra civile sanguinaria, molto più di una rievocazione dei velenosi giochi politici di Westeros. House of the Dragon è oltre, persino oltre Game of Thrones. E richiama così, ancora una volta, un doppio scenario che si profila nella mente degli spettatori almeno quanto nelle parole non pronunciate: coinvolti emotivamente dalle luci e dalle ombre illusorie di un autunno disvelato nella forma della tragedia, l‘Inverno si rigenera e prepara il tempo del prossimo avvento. Pochi minuti alla mezzanotte ma nessuno è pronto, a tutto ciò. Quel problema non esiste, ancora. E quando arriverà, sarà troppo tardi. Resta solo la metabolizzazione negata, la predizione inascoltata e l’azione brutale. Azione che combina il sangue col fuoco, il grido delle madri col sussurro dei macchinatori, l’inadeguatezza dei principi con l’arrogante devastazione dei princìpi. Il silenzio col frastuono, l’Inverno con tutto il resto.
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Resta solo il momento dell’attesa. Un’attesa ormai terminata sotto gli impetuosi colpi di un conflitto insanabile. Nessuno può più girarsi dall’altra parte. Nessuno vuole più farlo: il destino urla, mentre il rosso degli innocenti scorre sul pavimento. La pace non è più una condizione possibile: la spirale è innescata, l’incendio è divampato. La reazione si susseguirà ad altre reazioni. È arrivato il momento di danzare tra le vorticose note della distruzione. È arrivato il momento della guerra.
Antonio Casu
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