Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su House of the Dragon 2×03 e sul finale di Game of Thrones.
Quanti conflitti si risolverebbero se si rispondesse a una sola, semplice domanda: “Ma perché stiamo combattendo? Stiamo combattendo una guerra davvero nostra?”. Non l’analisi delle cause e delle conseguenze del presente, ma l’individuazione concreta della matrice del passato. Una matrice ormai sfumata tra falsi ricordi e mezze verità, tanto distanti da perdere il proprio ricordo e assumere la memoria confusa di un racconto inesistente. Di una bandiera da tenere alta a tutti i costi, di una storia da difendere anche quando quella storia è del tutto ignota. Quanti conflitti si risolverebbero, se si razionalizzassero fino in fondo le cause? Tantissime. Troppe per non perdersi nel vuoto quando si pensa, anche solo per un attimo, che la cronaca della nostra realtà si perda in un universo parallelo in cui quella domanda perde ogni significato. Tanto da non essere nemmeno posta, smarriti come siamo tra gli orrori del nostro presente.
Questa, in fondo, è la grande lezione che ci ha lasciato House of the Dragon 2×03.
Un episodio intenso – disponibile su Sky e Now – che ha affrontato il nostro quesito per l’intera puntata, arrivando alla risposta che abbiamo appena dato. La guerra è irrazionale, istintiva, persino inconscia. È sciocca, prima di tutto. Mette da parte uno degli elementi che più distingue l’uomo da tutto il resto, la memoria, e ci consegna un’attualità in cui la storia si fa da parte, sovrapposta com’è dall’incombente brutalità di un conflitto. No, l’orrore non ha memoria: si illude di averla per giustificare un posto dalla parte giusta della storia, ma non ce l’ha davvero. E no, la memoria non trova più spazio tra le pieghe della Danza dei Draghi, sorretta da movimenti impetuosi che dai sussurri e le minacce si stanno trasferendo all’azione. Anche quando la verità ritrova, per un attimo, un posto nei pensieri dei primattori di una tragedia che non troverà mai fine.
I Blackwood, i Bracken e tutti noi
House of the Dragon 2×03 espone chiaramente il concetto con grande efficacia, fin dai primissimi minuti. Sfruttando un conflitto secolare tra due casate minori provenienti dalle centralissime Terre dei Fiumi, i Blackwood e i Bracken, emerge da subito il tema chiave della puntata con sorprendente semplicità. Le due casate si detestano da tempo e non trovano motivi per convivere pacificamente: si detestano e l’una cerca storicamente di prevalere sull’altra, senza manco sapere come tutto questo sia nato, quando e come. Vanno in guerra tra loro per evitabili pretesti, sfruttando le contrapposizioni degli schieramenti avversi nel conflitto tra Verdi e Neri, per esplodere in una furia irrazionale che causa un numero pauroso di vittime. La guerra, d’altronde, non è solo verticale (come si spesso si fraintende quando focalizziamo l’attenzione sui soli potenti che muovono i fili): è anche orizzontale. Pure quando l’orizzontalità riguarda altri potenti, subalterni.
Game of Thrones, dal canto suo, aveva enfatizzato per questo i mastodontici danni sui civili provocati da Daenerys Targaryen quando attaccò Approdo del Re, e altrettanto fa questo episodio nel momento in cui concentra l’attenzione, almeno per pochi minuti, sulle complesse diramazioni assunte da una guerra civile che nasce coi Targaryen ma non si riflette esclusivamente sugli stessi.
Le cause della guerra sono spesso ignote, ma le conseguenze sono fin troppo evidenti in qualunque livello della scala sociale.
I “potenti”, dal canto loro, liquidano la questione come se avesse la ragione storica di una bega condominiale, senza tenere in considerazione il senso profondo di una faida nata per questioni risolvibili e degenerata in nome delle loro scelte scellerate.
Lo specchio riflesso di Rhaenyra ed Aegon Targaryen
La ragione e l’irragionevolezza scambiano quindi le posizioni in House of the Dragon 2×03, mostrandoci i due regnanti all’interno di uno specchio capovolto in cui l’uno riflette l’altro.
- Rhaenyra si ritrova così a dover gestire i fuochi del suo concilio ristretto, in cui le spinte patriarcali mettono in discussione l’egemonia della regina, sospesa tra l’inazione e il dubbio. Un dubbio a sua volta mortifero che mina la sua posizione, se non nel ruolo attivo di una madre che mette al riparo i suoi figli con istintiva ragionevolezza, dando vita al destino futuro di una sua lontana discendente: le uova che consegna a Rhaena, infatti, sono le stesse che si schiuderanno tra il fuoco e il sale nelle mani di Daenerys. Non basta, però: la guerra è ormai innescata, Daemon ha già avviato il suo cieco piano d’azione tra le rovine di Harrenhal e i Neri si ritrovano a non poter agire sulla difensiva, dopo il sangue versato.
Il concilio invoca la guerra, ma lei cerca un’ultima disperata mediazione con l’amica di una vita, schierata irrimediabilmente dall’altra parte.
- Altrettanto si può dire a proposito di Aegon, ma al contrario: la sua, infatti, è un’azione costante verso la guerra che malcela ogni sua fragilità. Il suo concilio è ormai ridotto alla strenua ragionevolezza di Alicent, ultimo argine all’interno di un postribolo di personaggi inadeguati. Personaggi mossi verso la mediazione o la guerra per meri interessi personali, se non per assecondare l’irragionevole miopia di un re scelto dalla storia ma non dal destino. Il suo è un concilio di guerra orfano dell’equilibrio lungimirante di Otto, con il Primo Cavaliere che finisce addirittura per guidare le operazioni sul campo senza assolvere in alcun modo al suo ruolo primario. Aegon, come sostenevamo ironicamente nelle nostre pagelle di una settimana fa, ha trasformato il suo Trono di Spade in un open bar, circondandosi di personaggetti che segneranno inevitabilmente la sua rovina. Sono gli uomini come lui a incarnare il senso estremo della guerra, tutt’altro che un atto di forza.
Se solo quella maledetta daga potesse parlare… anche ora che l’ha fatto
Altro che il “Principe che fu Promesso”. Aegon ha avuto solo la fortuna di imbattersi in una tragica omonimia. Si disvela così il suo inganno inconsapevole: investito dall’aura profetica dei Targaryen, finisce per stringere tra le mani una daga, la solita maledetta daga che finirà secoli dopo tra le mani di Arya Stark e dentro il petto del Night King, del quale è possessore senza mai esserne stato il legittimo proprietario. La ricomparsa dalla daga, stavolta “innocua” tra le grinfie di un regnante che giocherella con essa mentre il concilio si converte in ridicolo circo, non è casuale. La sua presenza, subdola e silenziosa, evoca infatti il dialogo finale che vedrà coinvolte, sorprendentemente, Rhaenyra e Alicent.
Il confronto tra le due donne in House of the Dragon 2×03, seppure innescato attraverso un piano piuttosto discutibile, disvela a fondo le ragioni di un conflitto in cui il casus belli si riduce al fastidioso ostacolo del fato.
Un fato segnato da eventi sempre più indipendenti dal volere dei singoli, e da una storia che affronterà il suo corso fino a smarrire il suo punto d’origine.
Dopo aver risolto l’equivoco che aveva consegnato il Trono di Spade a Aegon, nulla cambia: Alicent e Rhaenyra, e con esse le ragioni e i torti di Verdi e Neri, non sono più figlie di un’incomprensione, ma attrici consapevoli della guerra. Rhaenyra si convince di essere sul cammino del destino e combatterà per questo una battaglia che ora sentirà sua come non mai, mentre Alicent si ritrova ad affrontare le conseguenze morali dei suoi drammatici errori. Conseguenze schiuse, non a caso, tra le mura dentro un tempio in cui tenta ipocritamente di espiare i suoi peccati. Rhaenyra, dal canto suo, ha conosciuto finalmente le ragioni di quella che un tempo fu la sua migliore amica, pur non avendo spazio per trattare davvero: servirebbe un compromesso che nessuno vuole più offrire all’altro. Entrambe vogliono la pace, ma non possono fare niente per reprimere la guerra.
La storia, allora, si chiude in un angolo: le profezie di un Targaryen lontano secoli, il cui eco è distorto dai venti impetuosi della guerra, perdono ogni valore se non in funzione del ruolo che ognuno pensa di dover interpretare.
Il vero nemico, la Lunga Notte che porterà il terrore tra i vicoli reconditi di Westeros, cela il proprio volto tra quelli di umani ottusi e racchiusi nella medesima sorte. Rhaenyra, madre del presunto principe che fu promesso, da una parte. Dall’altra, Alicent, madre dell’altro presunto candidato al ruolo, e la sua soffocante ininfluenza, quasi fosse il sadico strumento di un destino che non conosce altre ragioni al di fuori del fuoco e del sangue. Nulla conta ormai, al di fuori di esso: le ragioni della guerra, denudate d’ogni ragione, mostrano il loro volto insensato, proiettate esclusivamente verso un presente distruttivo.
Il resto, tutto il resto, è confinato nel buio delle stanze private alle ragioni dello spirito più intimo.
Alicent sa di sbagliare almeno quanto lo sa Aemond, stretto tra le braccia di una figura materna intrisa di contraddizioni e sentimenti confusi. E altrettanto si potrebbe dire a proposito di Daemon, imprigionato tra le mura di una prigione che lui stesso ha invaso. Preda di inquietanti premonizioni e delle dirompenti visioni che lo mettono di fronte al prezzo pagato dalla sua coscienza, si ritrova a essere schiavo delle proprie azioni, senza saper più tornare indietro. Nemmeno se stesso sembra saper più accettare fino in fondo gli impulsi dei propri crimini, finendo per affrontare il volto dell’ultima persona che l’aveva amato e idealizzato per quello che era: la piccola Rhaenyra, ricordo sbiadito di un amore al capolinea.
Ma tutto è ciò è importante solo quando il sole tramonta e la notte presenta il bilancio della giornata. Quando tutto quello che resta è un confronto col proprio spirito, mentre le luci del giorno si apprestano a riprendere possesso del mondo. Quando è troppo tardi e tutto quello che conta davvero non conta più: non la storia, non la causa. Non la matrice della guerra, ma la guerra stessa. Una guerra che scorrerà tra fiumi di sangue mentre il tempo allevierà illusoriamente il peso della storia: il passato smetterà di esistere, e rimarrà solo il presente. Un presente infinito senza spazio per il futuro. L’orrore, d’altronde, non ha memoria.
Antonio Casu