Sta per volgere al termine la seconda stagione di House of the Dragon. Tra la notte di domenica 4 e lunedì 5 agosto andrà in onda l’ultimo episodio (in Italia, su Sky e Now). Un episodio attesissimo, lanciato al meglio dall’intensa settima puntata trasmessa nei giorni scorsi (questa la nostra recensione). Si chiuderà in questo modo una delle migliori serie tv del 2024, anche se con ogni probabilità molti non la penseranno così. Non sono mancate, infatti, le polemiche. Inevitabili, quando si parla di una produzione del calibro di House of the Dragon, kolossal accompagnato da grandissime aspettative e da un pubblico variegato con esigenze molto diverse. Quel che stupisce in parte, però, è la natura delle polemiche in questione.
Noi, dal canto nostro, abbiamo una linea chiara e coerente che abbiamo portato avanti per l’intero arco di episodi di House of the Dragon.
Riteniamo la seconda stagione all’altezza della prima, se non persino superiore da diversi punti di vista. Se si leggono in giro i vari commenti dei numerosissimi spettatori della serie, tuttavia, la prospettiva globale è molto diversa. Una percentuale significativa di fan è delusa dall’approccio della serie, ritenuta troppo lenta e con poca azione. Molti si approcciano a House of the Dragon come se aspettassero Godot: “Quando arrivano le battaglie?”. “Che fine hanno fatto i draghi?”. “Perché Daemon è ancora incastrato ad Harrenhal, vittima di quelle strane visioni?”. Abbiamo letto centinaia di commenti del genere, per tutta la stagione. Per questo, abbiamo preso appunti e abbiamo deciso di rispondere definitivamente alla domanda globale che si può trarre da un atteggiamento del genere: House of the Dragon ha davvero deluso le aspettative? Oppure è solo una questione di formato?
Risposta breve: no, House of the Dragon non ha deluso le aspettative. Laddove l’ha fatto, l’ha fatto in conseguenza di un fraintendimento a monte: House of the Dragon è sempre stata questa. Così come è sempre stata questa Game of Thrones, almeno fino alla sesta stagione. Non vi piace? Prendere o lasciare: il problema non è la serie. Non è, semplicemente, la serie giusta per voi.
Procediamo con la risposta più lunga.
Lo facciamo ora, a pochi giorni dalla messa in onda del finale di stagione, con un obiettivo chiaro: immaginiamo un episodio conclusivo che sarà ricco di azione e colpi di scena. Appagherà gran parte del pubblico, come ha fatto la settima e aveva fatto la quarta, valorizzata da una battaglia epica e da un’importante dipartita che ha commosso il pubblico. Senza avere la presunzione di essere profetici, né avendo a disposizione le doti di Helaena o l’influenza degli alberi diga, non è difficile immaginare che le opinioni sul finale possano spostare in parte le prospettive del pubblico. Del pubblico cerca l’azione, gli intrighi, il fuoco e il sangue. E che finirà per attendere spasmodicamente la terza stagione, pur non dimenticando la delusione provata per alcuni tra gli episodi più statici della seconda stagione.
Quel che si è detto nelle ultime settimane, tuttavia, rimarrà. E finirà per condizionare anche chi non ha ancora visto in nuovi episodi di House of the Dragon.
L’opinione popolare, d’altronde, pesa molto più dei pareri della critica. E la narrazione comune secondo cui la serie non sarebbe più quella della prima stagione finirà per convincere i più. Sarebbe un peccato, totale. Il pubblico è cambiato parecchio negli ultimi anni, e tale atteggiamento è pericoloso. Non sono in gioco i gusti e le opinioni del pubblico. Non lo sono e non lo saranno mai: è giustissimo così, se non persino sacrosanto. È altrettanto giusto, però, essere obiettivi. E prendere atto, a un certo punto, di cosa valga davvero e cosa invece possa piacerci o meno.
Se da un lato il pubblico è meno paziente di un tempo e presenta nella sua globalità un atteggiamento più irrequieto, legato in gran misura allo sviluppo di una narrativa che deve tenere in considerazione una fruizione più dinamica e meno attenta, dall’altra c’è in ballo il futuro della serialità. Il futuro della serialità per come la intendiamo da venticinque anni a questa parte. Così come lo è il futuro del cinema, della musica o di qualunque altra forma espressiva di massa, ma andremmo troppo lunghi se estendessimo il discorso.
Allora facciamo un esempio, su tutti: come sarebbe stata accolta, oggi, la prima stagione di Breaking Bad?
Giochiamo ancora a fare i profeti, seppure a posteriori: male, malissimo. Immagineremmo pareri simili rispetto a quelli rivolti oggi ad House of the Dragon, e avremmo corso il rischio di perdere l’opportunità di guardare per intero una delle opere narrative più significative degli ultimi due decenni. Sono passati diciassette anni dalla prima messa in onda, eppure sembra esser trascorsa una vita: il pubblico, oggi, è un’altra cosa. Vuole tutto e subito, in buona misura.
È legittimo? Lo è e lo sarà sempre. Rischia di distorcere i pareri su prodotti qualitativamente validi? Altrettanto vero. Sia chiaro: il punto non è mettere a confronto Breaking Bad con House of the Dragon. Affatto. E non riteniamo perfetta la seconda stagione dello spin-off di Game of Thrones, per niente. Ci arriveremo, ma la chiave di questo pezzo è un’altra: cosa dovremmo aspettarci davvero, da una serie del genere?
Partiamo da un presupposto: sarebbe stato molto più semplice operare un lavoro di sintesi maggiore, rispetto a quello che è stato fatto. A differenza di Game of Thrones, tratto da un lunghissimo ciclo di romanzi che ha necessitato di un lavoro di adattamento televisivo molto complesso, House of the Dragon è tratto da un solo libro e presentava tutti gli elementi per essere racchiusa in una, massimo due stagioni. Gli autori, tuttavia, hanno deciso di estendere l’impalcatura narrativa per quelle che dovrebbero essere quattro stagioni, ampliando il raggio dei personaggi, dei contesti e delle situazioni, in modo da arrivare a un racconto più approfondito rispetto a quello offerto dall’ottimo romanzo di Martin.
A quel punto, non avremmo letto le lamentele che abbiamo letto nelle ultime settimane: la trama si sarebbe circoscritta all’azione e la Danza dei Draghi sarebbe stata il fulcro totalizzante di House of the Dragon.
Avremmo avuto il fuoco e il sangue, gli intrighi, le battaglie epiche e i vorticosi capovolgimenti di fronte, ma non avremmo avuto in cambio la possibilità di vivere con maggiore intensità tutto quello che abbiamo visto e vedremo nelle prossime stagioni. Sarebbe stata un’opera altrettanto valida? Probabilmente, sì. Questa, però, è un’opera diversa. Risponde alle chiavi rivoluzionari della golden age televisiva e all’evoluzione della narrativa contemporanea: l’azione c’è, ma è assecondata da un lavoro di sviluppo che sfuma ogni cosa, dando un’immagine più profonda e intrigante di tutto quello che vediamo in onda.
L’alternativa, in fondo, sarebbero le ultime due stagioni di Game of Thrones. Due stagioni criticatissime, anche da chi predilige l’azione. Perché a differenza di quanto fatto in precedenza, si era deciso di puntare tutto su una trama veloce (troppo veloce) a discapito dei dialoghi. Si è persa, così, l’essenza della serie stessa. Una serie che lavora sugli approfondimenti esattamente quanto lavora sull’azione, dando modo così di vivere con maggiore intensità e cognizione di causa il fuoco, il sangue, gli intrighi politici e le epiche battaglie. Ne avevamo parlato in un articolo dedicato, e il punto è tutto qua: House of the Dragon sta andando nella direzione portata avanti dalla serie madre nelle prime stagioni, in tutto e per tutto.
La lentezza, in quest’ottica, diventa un investimento fondamentale per il futuro.
La staticità di alcuni episodi della seconda stagione verrà valorizzata in futuro da battaglie sfaccettate con personaggi più solidi, stratificati e per questo funzionali a un’esperienza immersiva totalizzante. Se si togliesse questo, rimarrebbe il fantasy d’azione che avrebbero realizzato fino agli anni Novanta: gli eroi e i cattivi, il bianco e il nero, l’azione combinata con altra azione. Può piacere come non piacere, ma sarebbe stato sicuramente altro. E le serie tv sono diventate quello che sono diventate negli ultimi venticinque anni grazie a questo. Cosa sarebbe rimasto di Tony Soprano, se alle dinamiche di potere più essenziali non si fosse affiancato lo straordinario lavoro d’approfondimento introspettivo del personaggio? Un’opera sul mondo della mafia come tantissime altre. Altrettanto potremmo dire a proposito di Breaking Bad, visto che l’abbiamo menzionata in precedenza.
La questione è tutta qua: troppo spesso, ci si aspetta che House of the Dragon debba essere quello che non è. Chi vi scrive, invece, è convinto del fatto che una serie tv scritta in questo modo, se non rinnegherà se stessa in futuro, verrà rivalutata a posteriori. Così come verrà rivalutata la seconda stagione nella stessa misura in cui sono state rivalutate a posteriori le prime stagioni di Breaking Bad o Game of Thrones. La lentezza va vista in un quadro d’insieme più esteso: chi si annoia non sbaglia, ma sbaglia nel momento in cui chiede alla serie di snaturarsi.
Detto tutto questo, ciò non toglie che la seconda stagione non sia perfetta.
Le trame di Daemon ad Harrenhal, seppure siano fondamentali per lo sviluppo del personaggio, sono apparse a tratti ridondanti, e alcuni episodi sono più statici di altri proprio per la necessità di sviluppare gradualmente una trama che avrebbero potuto definire nella metà del tempo. Potremmo parlare, inoltre, della questione dei draghi nomadi (evocata dallo stesso Martin) o del discutibile adattamento della famigerata scena con Blood and Cheese, giusto per fare alcuni altri esempi. La sostanza, però, non cambia. House of the Dragon non è esente da difetti e con ogni probabilità sbaglierà ancora in futuro, ma l’atteggiamento critico di parte del pubblico risponde al fraintendimento, più che alla natura degli errori commessi.
Vogliamo essere fiduciosi, allora: arriverà il tempo in cui il fuoco e il sangue ruberanno la scena a tutto il resto (così come è già successo in alcuni episodi), ma serve maggiore pazienza. Investire sulla serie, crederci fino in fondo. Seguirla attentamente e imparare ad apprezzare le sfumature, i dialoghi e le costruzioni narrative raffinate che gli autori hanno messo in gioco. Oppure non farlo, puntando su un’altra serie: il pubblico avrà sempre ragione e i gusti non saranno mai messi in discussione. Il panorama televisivo contemporaneo è composto da migliaia di produzioni diverse, adatte alle esigenze di ognuno. Volete l’azione, senza tutto il resto? Troverete sicuramente il titolo perfetto per voi. House of the Dragon, però, non rientra in quella categoria. E va benissimo così com’è.
Antonio Casu