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Se solo quella maledetta daga potesse parlare

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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in importanti spoiler su Game of Thrones e la settima puntata di House of the Dragon

Rhaenyra s’è fermata, per un momento. Un attimo di esitazione, tra le fiamme. Il calore del fuoco ha fatto riemergere la verità di una profezia lontana. E di un destino già scritto che cerca i suoi interpreti tra le ceneri di una dinastia allo sfascio. Rhaenyra ha esitato, di fronte all’irosa Alicent. Ha capito, in un attimo, che la vera guerra dovrebbe essere un’altra. E che una daga, quella di sempre, sussurra sottovoce tra gli echi di un nemico ancora senza volto. Già, la daga. La maledetta daga che un giorno assumerà la forma della più liete delle benedizioni, nella più inattesa delle conclusioni. Impugnata da Alicent nella scena madre del settimo episodio di House of the Dragon, dopo averla sfilata rabbiosamente dalla cintola dell’inerme re Viserys in un raptus d’irrazionale follia. E che rappresenta l’unico vero filo conduttore tra il prequel incentrato sui Targaryen, Game of Thrones e, forse, il sequel con protagonista Jon Snow.

Andiamo con ordine, perché questa è una storia lunghissima. E mette radici nell’incisione presente sulla lama del pugnale, in acciaio di Valyria. Poche parole, fatte leggere e illustrate da Viserys a Rhaenyra tra il pilot e il terzo episodio House of the Dragon: “”Dal mio sangue viene il principe che fu promesso, e la sua volontà sarà il Canto del Ghiaccio e del Fuoco”. La frase è di Aegon il Conquistatore e figlia di una visione in sogno che sembra poter riscrivere per certi versi la storia dell’intera saga. La daga, a lui appartenuta, gli arrivò indirettamente dalle mani di un suo avo, Aenar, signore dei draghi dell’Antica Valyria, padre di Daenys, una cosiddetta “sognatrice” con capacità profetiche. Fu lei a mettere in guardia Aenar dall’imminente disastro che avrebbe presto distrutto la loro terra e convincerlo a trasferirsi a Roccia del Drago.

Aegon il Conquistatore, a quanto pare, condivideva con Daenys (e con chissà quanti altri Targaryen) questo particolare dono, e fu convinto dalle sue veggenze a unire i regni di Westeros dopo una sanguinosa guerra, con un solo fine: guidare il mondo in una battaglia campale tra il fuoco e il ghiaccio. Secondo le profezie, in sostanza, un Targaryen avrebbe dovuto sedere sul Trono di Spade per fronteggiare l’avanzata del terribile Inverno. La daga incarna fisicamente la leggenda tratta dalle visioni, centralissime nella storia di una casata che spesso ha vissuto i suoi principali momenti di svolta a seguito di questi particolari “sogni”. Di conseguenza, ha un valore immenso. E alla successione di ognuno dei re Targaryen, la daga passa all’erede designato con la rivelazione della relativa profezia.

La daga arriva così a Viserys Targaryen, condizionato a sua volta da leggende, profezie e sogni al punto da portarlo a designare Rhaenyra e non Daemon come sua erede. Ma il destino, si sa, ama talvolta disegnare delle traiettorie tutte sue per passare da un punto A a un punto B. Ed è così che, oltre un secolo e mezzo dopo, la daga finisce tra le mani di un uomo che Targaryen non è. Né tantomeno, un principe. Più che una promessa, una minaccia costante. E che pensa ad alimentare e percorrere le sterminate vie del caos, invece di mettere ordine nel mondo e guidarlo in nome di un bene superiore: Ditocorto. Arriviamo quindi a Game of Thrones, i suoi perversi giochi di potere e il tentato omicidio di Bran Stark. La daga, infatti, viene ceduta a un sicario per far fuori il bambino, in coma dopo esser stato buttato giù da una torre da Jaime Lannister: come ben sappiamo, l’attentato non va a buon fine, Catelyn Tully indaga per individuare i mandanti e per farlo cerca di risalire al proprietario del pugnale, finendo per imboccare un vicolo cieco che la porta ad accusare erroneamente Tyrion Lannister. Il resto è storia: la daga finisce poi in mano a Eddard Stark, Ditocorto lo tradisce, gli punta il pugnale alla gola e la successione degli eventi scatena la guerra dei Cinque Re.

Samwell Tarly legge la storia della vecchia daga in un libro

Un solo elemento di continuità attraversa i secoli per raccontare, a modo suo, la storia di Westeros: di mano in mano, la daga si spoglia d’ogni profezia per trasformarsi nella preziosa arma del peggiore degli arrivisti tra false verità, cruenti inganni e dolorose condanne a morte. Se solo potesse parlare, chissà cosa narrerebbe quel pugnale, per anni in possesso di un omuncolo che non pensa ad altro che al suo successo. E così è, per anni, quando Ditocorto, nella settima stagione di Game of Thrones, lo usa per avvicinarsi a Bran Stark, ormai cresciuto e divenuto il Corvo con Tre Occhi, attraverso un dono inopportuno: in nome di un presunto atto di benevolenza, Petyr Baelish gli regala l’arma che avrebbe dovuto ucciderlo. Senza poter esser consapevole del fatto che quel gesto, interessatissimo, avrebbe ricondotto il destino sui binari di una leggenda ormai incombente. La daga, infatti, passa poi dalle mani di Bran Stark, ormai onnisciente, a quelle della sorella Arya Stark: la guerriera, da quel momento, fa della daga una parte integrante della sua mano.

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Grazie all’ironia di un destino che sa essere beffardo e trova sempre il mondo per bilanciare pesi e contrappesi, prima la usa per tagliare la gola allo stesso Ditocorto, e poi per far ripartire un tempo che sembrava ormai essersi cristallizzato nel ghiaccio dell’Inverno perenne, attraverso l’involontaria sublimazione di un’arma nata con un solo fine: eliminare gli Estranei e salvare l’umanità. Arya, infatti, usa la daga, la stessa che ha riempito i pensieri di troppi Targaryen, per uccidere il Night King. Qui la storia si interrompe, riparte e finisce per salire su una nave diretta verso terre ignote e inesplorate, ma qui iniziano pure i problemi di questo suggestivo racconto: che c’entra Arya? Perché è stata proprio lei a risolvere la Battaglia di Winterfell e divenire un sorprendente e controverso deus ex machina?

Arya, d’altronde, non è una Targaryen, non asseconda tante delle profezie che avevano costituito per molti versi l’impalco narrativo di una saga, quella di Martin, in cui la realtà e i sogni spesso finiscono per interagire intimamente, non si è mai seduta sul Trono di Spade e sembra rispondere a un unico vero, identikit, se si prescinde dai potenziali riferimenti di Melisandre: è la donna sbagliata al momento giusto. Lei uccide il Night King, non Daenerys Targaryen. Soprattutto non Jon Snow, l’Aegon figlio di Rhaegar Targaryen e Lyanna Stark. L’uomo che più di ogni altro avrebbe potuto assecondare le profezie, unire la forza del ghiaccio a quella del fuoco, sedere sul Trono di Spade, eliminare il grande spettro e guidare il mondo verso una nuova era. Un’era di pace, serenità e prosperità.

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Ma allora perché House of the Dragon sembra essere ossessionata da quella maledetta daga? Perché presentarla fin dal primissimo episodio in un modo tanto esplicito, riportarla in scena nel terzo e poi trasformarla nell’arma che viene utilizzata, di fatto, nel momento in cui la Danza dei Draghi trova il suo primo vero casus belli? Perché indugiare tanto sulla daga nel momento in cui Alicent ferisce Rhaenyra, dopo averla vista incrociare la lama con le fiamme rivelatrici, scrutare l’esitazione dell’erede al trono, osservarla scivolare via dalle mani della Regina consorte per poi cadere a terra? Perché fare di un’arma che nei libri di Martin è poco più che marginale, distinta principalmente per il preziosissimo materiale del quale è fatta (l’acciaio di Valyria), la porta che schiude i confini della profezia più importante? Vogliamo davvero pensare che non sia altro che un modo per valorizzare in qualche modo il deficitario finale di Game of Thrones e riabilitarlo a posteriori, attraverso un’intrigante backstory?

Una parte di noi vorrebbe pensarlo e vivere lo sviluppo di una profezia con la massima cautela, visto che non si tratterebbe certo della prima che poi non troverebbe conferme nello sviluppo degli eventi. Ma un’altra parte di noi non crede nemmeno a questo, perché nell’economia certosina dei fatti narrati finora in House of the Dragon, la daga sta ricoprendo uno spazio gigantesco. Il pugnale, dopo sette episodi, è un enorme elefante nella stanza che rischia di distogliere l’attenzione da tutto il resto. E allora avanza un’ipotesi, già analizzata in un approfondimento di qualche settimana fa, che porterebbe alla riscrittura di uno dei finali più contestati nella storia delle serie tv: Arya Stark potrebbe aver fatto fuori il Night King ma non gli Estranei nella loro totalità. E a quel punto il prequel di Game of Thrones assumerebbe la forma di un prequel direttamente legato al sequel, oltre che alla serie madre: il sequel, ufficioso, con protagonista Jon Snow.

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Avrebbe senso, al di là dell’enorme diffidenza che accompagnerebbe l’eventuale riscrittura del finale di Game of Thrones e la “resurrezione” di un nemico che sembrava esser stato sconfitto una volta per tutte. Perché gli Estranei tornano ciclicamente dopo ogni grande sconfitta, sempre. E questo elemento è parte del canon di Martin, al di là delle differenti tempistiche che dovremmo affrontare in questo caso. Perché darebbe una proiezione diversa al sequel incentrato sulla figura di Jon Snow, altrimenti privo o quasi di spunti narrativi davvero intriganti: la questione politica di Westeros sembra essersi ormai stabilizzata (almeno per ora) con l’ascesa di Bran Stark, Jon non avrebbe un grande nemico da affrontare ed esplorare la quotidianità della sua terza vita coi bruti pare non essere abbastanza per reggere la trama di un progetto tanto ambizioso. Ma soprattutto risponderebbe a una domanda che inevitabilmente ci si fa ogni volta che rivediamo quella maledetta daga: perché indugiare tanto su di essa persino nei poster promozionali (osservate attentamente l’occhio di Vhagar), in un contesto sulla carta del tutto estraneo alla questione Estranei?

A quel punto, tutto assumerebbe un significato completamente diverso. E l’uccisione del Night King per mano di Arya Stark non sarebbe più un punto finale che fa acqua da tutte le parti, bensì interlocutorio. L’illusoria quiete prima della vera tempesta che trasformerebbe il sequel in una sostanziale nona stagione di Game of Thrones. E avrebbe le potenzialità per riscattare il finale di una delle serie tv più rappresentative dell’ultimo decennio. Non ci resta che attendere, osservare con la massima attenzione ogni singolo dettaglio e non perdere mai d’occhio la daga. La solita daga. La solita maledetta daga che rivedremo ancora prima di attraversare con essa i secoli, le grandi battaglie, i matrimoni, i funerali, gli eventi chiave e i protagonisti principali. Guardarla passare di mano in mano, fino a vederla forse impugnata dall’unico vero principe che fu promesso: Jon Snow, Aegon Targaryen. Pronto ad affrontare ancora una volta l’unico nemico che davvero conta, dentro un racconto in cui ognuno non fa altro che inseguire il potere e con esso lo spettro di se stesso, perdendosi in superficiali questioni umane. Rhaneyra, nel momento in cui viene aggredita da Alicent e rilegge le parole di Aegon il Conquistatore sulla lama della daga, sembra averlo capito. Per tutti gli altri, invece, non saranno sufficienti due secoli di guerre sanguinarie.

Antonio Casu