ATTENZIONE: non proseguite la lettura se non volete imbattervi in SPOILER su Hunters.
La domanda non è retorica: Al Pacino era davvero necessario nella seconda stagione di Hunters? Se lo saranno chiesti in molti dopo aver visto le ultime otto puntate conclusive della serie che racconta le avventure di un gruppo di cacciatori di nazisti. Serie distribuita da Amazon Prime Video e creata e scritta da David Weil, già ideatore di Solos e Invasion.
Così come molti si erano chiesti se il premio Oscar come miglior attore protagonista per Scent of a Woman – Profumo di donna sarebbe tornato nella seconda stagione vista com’era finita la prima. Dubbio lecito che la produzione aveva fugato nel più breve tempo possibile annunciando che Al Pacino, uno tra i pochi a potersi fregiare del Triple Crown of Acting (titolo che va a chi vince almeno un Tony, un Emmy e un Oscar nel ruolo di protagonista), sarebbe stato della partita.
E così lo abbiamo visto. Apprezzato. Anche ammirato. Perché le sue capacità di attore, come al solito, sono venute fuori e ci hanno incantato, come quasi sempre accade. Ma proprio a causa di questa ennesima lussuosa prova dell’ottantaduenne attore newyorkese ci siamo chiesti se la sua presenza fosse davvero necessaria. E, com’è ovvio che sia, ci siamo dati anche una risposta. Positiva e negativa al tempo stesso. Un po’ come il celebre gatto di Schrödinger.
Intanto occorre dire che, con Hunters, non era la prima volta che Al Pacino affrontava un ruolo televisivo. Nel suo curriculum, infatti, troviamo Angels in America, toccante miniserie in sei puntate che raccontano la tragedia dell’AIDS nell’America reaganiana; e il film per la televisione You Don’t Know Jack – Il dottor morte, ambedue prodotti da quella meravigliosa fucina che è la HBO. Per entrambi l’attore ha ottenuto un Emmy come miglior attore protagonista, questo a riprova, semmai ce ne fosse bisogno, che il talento dell’otto volte candidato all’Oscar è tale a teatro, al cinema e in televisione.
La sua presenza nella serie di David Weil è stata, in senso positivo, uno specchietto per le allodole. Chi vi scrive, per primo, l’ha guardata proprio perché grande appassionato dell’attore newyorkese. E ne è rimasto più che soddisfatto, anche se con qualche rimpianto.
Del resto il progetto era partito subito con grandi ambizioni: un ottimo soggetto, una brillante sceneggiatura, un eccellente cast, una regia minuziosa accompagnata da una accattivante fotografia, il tutto condito da una graffiante colonna sonora. Citazioni fumettistiche e una spruzzata di tarantinismo hanno poi reso il prodotto uno dei più interessanti degli ultimi anni, senza dubbio.
Ma diciamo pure anche questo: la seconda stagione di Hunters non è stata all’altezza della prima. E qui torniamo alla domanda iniziale dando, finalmente, le dovute risposte
Eh sì, Al Pacino era davvero necessario alla seconda stagione. Perché? Perché senza la presenza dell’attore newyorkese il prodotto di Amazon Prime Video sarebbe stato un fiasco. Escludendo la settima puntata, davvero eccellente, le scene dedicate al personaggio di Meyer Offerman sono indubbiamente le migliori. Perché sono appassionanti; perché portano avanti una storia nuova e interessante; perché danno una spiegazione alla nascita dei cacciatori di nazisti e lo fanno con una certa logica e una certa coerenza con quanto visto finora. Perché hanno un respiro naturale, scorrono senza fretta, si prendono il giusto tempo per prendere per mano lo spettatore e accompagnarlo nella tana del Lupo, aiutandolo a focalizzare la sua attenzione sul dettaglio preciso, necessario, utile.
Così, è meraviglioso l’incontro del Lupo con sua sorella e sua nipote, nella macelleria di famiglia. E poetica è la visita che Al Pacino fa al cimitero dove, tra le altre cose, mette fine alla vita di uno dei candidati al ruolo di cacciatore.
Per non parlare del fermo di polizia con relativa, colossale menzogna inventata sul momento, che risulta persino comica e lo sbalorditivo incontro tra Offerman e Wiesenthal, lui sì, vero cacciatore di nazisti, con quest’ultimo che definisce Offerman un principe e definisce se stesso un servo, che deve sporcarsi le mani affinché non sia il principe a doverlo fare. E questo, al netto dell’interpretazione dell’attore che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione.
Eh no, Al Pacino non era davvero necessario alla seconda stagione. Perché? Perché se ti prendi la licenza di tenere in vita Hitler, di dargli la caccia, di catturarlo e poi di processarlo non dovresti aver bisogno di un attore del suo calibro.
Il problema è che le due trame, il passato rappresentato da Offerman e il presente rappresentato da Hitler, sono come due strade che non solo non si incrociano mai ma che nemmeno si sfiorano. Sembra quasi di assistere a una gara impari tra un’auto di Formula Uno e una utilitaria.
L’idea della caccia ad Adolf Hitler e il suo processo erano davvero esplosive ma avrebbero potuto, e forse dovuto, venir sviluppate meglio, con più attenzione ai dettagli. In realtà lasciano più rimpianti che soddisfazioni. In particolar modo è fallace tutta la parte del processo perché risulta poco convincente, disordinata, con dialoghi che non hanno alcuna profondità, quasi privi di emozioni. Tutta la parte procedurale, che ricorda sia il processo ad Adolf Eichmann, in Israele, sia quello di Norimberga è infilata lì, in chiusura di serie e non dimostra niente: né la follia né la mostruosa lucidità di un genocida.
Così, la storia di Offerman e quella di Hitler lasciano allo spettatore, ed è questo il problema principale, l’impressione di vedere due spettacoli completamente scollegati tra loro. Scollegati e con una qualità nettamente differente. Da solo, infatti, Al Pacino riesce a portare a casa la stagione e, forse, persino l’intera serie, nel suo complesso. Ed è un vero peccato considerate le interessanti premesse viste nelle prime dieci puntate.
In sostanza la presenza di Al Pacino è fondamentale per dimostrare che senza di lui la seconda stagione avrebbe rischiato parecchio. Un paradosso, insomma. Sì e no allo stesso tempo. Come il gatto di Schrödinger, appunto.
Peccato però. Perché gli ingredienti affinché Hunters fosse una delle migliori serie televisive degli ultimi anni, come queste, c’erano proprio tutti. Ma sono stati mischiati male. Un’insalata mal riuscita, non proprio digeribile.
La presenza di Al Pacino è stata una scelta dovuta. Ma come un’arma a doppio taglio ha avuto i suoi pro e i suoi contro e il risultato finale è sotto lo sguardo di tutti.
Pensare che sarebbe bastato mischiare un po’ meglio le trame magari inserendo la storia di Offerman fin dal principio, subito dopo la morte di Ruth, nella prima stagione. Senza nemmeno allungare il brodo. Semplicemente dando alle trame un ordine diverso.
David Weil ha detto: “non potevamo, nella seconda stagione, non sfruttare ancora la bravura di Pacino. Così ci siamo messi a tavolino, lui e io, convinti che la storia del Lupo non potesse finire con la sua morte“. Un po’ com’è successo per Berlino ne La casa di carta. Ucciso il personaggio più carismatico, lo si è tirato fuori con l’espediente del flashback.
Cosa fatta, capo ha. Non si può più tornare indietro. Ma possiamo però immaginare il futuro. E perché no, sperare che David Weil decida di raccontarci la storia di come il Lupo sia diventato Meyer Offerman, stimatissimo membro della comunità ebraica newyorkese del dopoguerra. Così ebreo da ingannare persino Simon Wiesenthal, il vero cacciatore di nazisti. Perché questo sì che sarebbe uno spin-off davvero sontuoso, che varrebbe proprio la pena di guardare.