ATTENZIONE: se prosegui nella lettura potresti imbatterti in spoiler sulle due stagioni di Hunters!!
Esiste un modo per riparare alla più grande ingiustizia della storia? C’è forse, da qualche parte, una forma di indennizzo per le sofferenze patite a causa del dilagare del male assoluto? È giusto pretendere che qualcuno paghi per i crimini del mondo? Il racconto di Hunters – un po’ tarantiniano, un po’ moralistico, un po’ fumettistico – libera la memoria dalle sterpaglie dell’indolenza e dell’oblio in cui precipitano le storie scomode, quelle laceranti, che straziano ancora l’animo umano e lo lasciano senza difese, e prova a dare sfogo a un’ansia di rivalsa che non ha ancora trovato soddisfazione (e potrebbe mai trovarla?). David Weil è il creatore della serie distribuita da Amazon Prime Video e appena giunta a conclusione con il rilascio della sua stagione finale. Lo showrunner americano – autore di un altro prodotto targato Amazon Prime, la miniserie antologica Solos, l’assolo morente dell’umanità – è un ebreo, nipote di ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento durante l’Olocausto, per cui il suo punto di vista sulla storia raccontata in Hunters non è del tutto distaccato. E neppure potrebbe esserlo, dal momento che ogni sceneggiatore si serve del mezzo televisivo e delle sue storie per trasmettere qualcosa. Un sentimento, un messaggio, una visione, un allarme.
Hunters si presenta come uno show adrenalinico e violento, con quella sottile vena d’umorismo che lo avvicina al cinema tarantiniano.
I cacciatori della serie sono la generazione 2.0 dei bastardi senza gloria che durante la Seconda Guerra mondiale uccidevano i nazisti. Loro, i protagonisti di Hunters, danno la caccia ai gerarchi trent’anni dopo la fine del conflitto. Li scovano, li smascherano, estorcono loro delle confessioni e poi li ammazzano. A volte per errore, altre volte per vendetta. Jonah Heidelbaum (Logan Lerman) si trova invischiato in questo gioco oscuro quasi per caso. O forse per un disegno preordinato del destino. Sta di fatto che il giovane ebreo newyorchese, nipote di una sopravvissuta ai lager, si ritrova ad abbracciare la causa della sua gente, investito dello spropositato compito di fare giustizia. Le vittime diventano in Hunters i carnefici. E, di conseguenza, i carnefici diventano in qualche modo le vittime. Alcuni di loro vengono legati e torturati, prima di essere uccisi. È la giustizia terrena che si abbatte sulle loro teste. Sopravvissuti ai processi post-conflitto, fuggiti negli Stati Uniti sotto falso nome, i responsabili di tante atrocità nella Germania nazista hanno tentato di rifarsi una vita lontano dalle macerie del Reich, nell’America che dà asilo a tutti e che rappresenta anche per loro una chance di rinascita. Non che si siano convertiti a più nobili propositi, tutt’altro. Weil ha dovuto mantenere per loro lo status di villain, li ha immaginati come dei demoni travestiti da agnelli, nostalgici del nazismo camuffati da medio borghesi col viso pulito e le piscine nel giardino di casa. Ma chi ha indossato una divisa delle SS non cambia mai davvero. È il suo animo che è marcio, la sua coscienza che è corrotta. E a quell’efferatezza che ha portato allo sterminio di sei milioni di ebrei bisogna porre un argine, un rimedio.
È così che il tema della vendetta si impossessa del cuore di questa serie.
I cacciatori si mettono sulle tracce dei nazisti per vendicare i morti dei lager, le sofferenze patite dalla loro gente. Se non esistono i buoni in Hunters, lo stesso non si può dire dei cattivi. Questi allignano nel cuore della società, la guastano con i loro propositi folli e, se la giustizia dello Stato non riesce a estirpare il male che rappresentano, qualcuno dovrà pur assumersi l’onore di farlo al posto suo. Riusciamo a condannare le azioni crudeli dei cacciatori guidati da Meyer Offerman (Al Pacino)? Proviamo simpatia per questi personaggi? Riusciamo ad empatizzare con la loro battaglia? Approviamo o disapproviamo quello che vediamo? Perché, al di là della trama coinvolgente e della dinamicità delle sue sequenze narrative, questo show di Amazon Prime Video ci induce a riflettere su tematiche molto più laceranti di quel che potrebbero sembrare a uno sguardo più superficiale. Le decisioni prese dai cacciatori, la loro deliberata scelta di consegnarsi all’oscurità, è frutto di una sconfortante presa di coscienza: la giustizia fallisce. La giustizia non risarcisce del tutto, non garantisce le vittime, non punisce i colpevoli. Uomini che si sono macchiati di crimini tanto disumani viaggiano a piede libero nella patria della democrazia. Indisturbati, tutelati, persino sorridenti. L’entità delle pene, qualora vengano comminate, non è commisurata all’atrocità del delitto (ma potrebbe mai esserlo davvero?). Le canaglie la fanno franca e persino uno dei più grandi mostri della storia potrebbe eludere le maglie della giustizia.
Nell’episodio finale di Hunters, Weil vuole mostrarci come i cavilli giudiziari, le questioni di competenza, il richiamo all’onere della prova e altri espedienti difensivi potrebbero salvare persino Adolf Hitler dalla condanna in tribunale. L’agente dell’FBI Millie Morris (Jerrika Hinton) è un personaggio costruito per mostrare l’inconsistenza della giustizia dello Stato. La pessima gestione delle indagini dei federali, la corruzione e l’apatia di certi uffici investigativi sono la prova di un’inefficienza del sistema giudiziario che spinge le vittime a tutelarsi da sé. A farsi giustizia per conto proprio. Oltre a presentare un prodotto divertente e dinamico, che attiri lo spettatore nel cuore dell’azione, Hunters vuole mostrare anche le criticità della macchina della giustizia. Criticità che nella serie si superano seguendo una via più rapida: quella della caccia spietata. Una caccia che ti trasforma, che ti cambia, ti danneggia, macchia per sempre la tua anima. La migliore vendetta è non essere come il tuo nemico, diceva Marco Aurelio. Ma l’anziano imperatore romano non aveva mai visto l’Olocausto. I personaggi di Hunters non riescono sempre a fermare il grilletto, il desiderio di porre un argine alla malvagità talvolta è troppo accecante.
Il male trasforma inevitabilmente chi ne viene sfiorato.
In maniera irreversibile, come dimostra la scena finale della seconda stagione. Quella che sembra una semplice vacanza da sposini a Miami, un insperato ritorno alla normalità, cela invece le intenzioni oscure di Jonah, che ha segnato una nuova vittima (l’ultima?) sulla lista della sua caccia. È la prova che il male corrompe per sempre? Che cos’è che vuole davvero comunicarci David Weil con la serie targata Amazon Prime? Che il normale corso della Storia si è incastrato un bel giorno sulla più atroce delle mostruosità, un abominio tale che l’umanità intera ne resterà segnata per sempre. Hunters è innanzitutto un invito a non dimenticare, fatto da chi come Weil ha più di una ragione personale per contribuire a mantenere viva la memoria. Questa serie sembra voler dare un’occasione di rivalsa alla Storia stessa, seppur nella finzione. Il processo finale ad Adolf Hitler assume un tono diverso rispetto al resto della trama. Più retorico, forse. Molto più enfatico e moraleggiante. È una sorta di piccola rivincita che l’umanità si prende nei confronti del più grande crimine della storia. La condanna di Hitler – così come la notizia finale che Harriet (Kate Mulvany) porta a Jonah, quando gli comunica che è stato Meyer ad aver organizzato l’uccisione di sua nonna – dovrebbe essere liberatoria, risarcire almeno una parte delle sofferenze patite. È per questo che si tende a giustificare la violenza: perché serve a punire altra violenza. O è semplicemente vendetta? Un reale senso di pace, un risarcimento adeguato, su un trauma del genere, non si può mai ottenere davvero. È con questa amara – e forse inconscia – consapevolezza che ci lascia Hunters. Che è una serie che ha provato a scansare le macerie, ma che ha ottenuto indietro solo nuovi pesanti macigni.