Ho visto per la prima volta I Simpson a cinque anni, nel 1992, mentre armeggiavo con chissà cosa a casa di mia nonna. Erano gialli, erano buffi, erano strani. E in un attimo avevano succhiato tutta la mia attenzione. Persa da mesi nel loop de La Sirenetta, quella visione bizzarra stimolava una curiosità quasi diabolica. Mi faceva ridere, sì, sebbene non capissi perché. Con ottime probabilità la mia attenzione era rivolta a quei dettagli che oggi non noterei nemmeno, tanto sono stratificati I Simpson. In fondo lo show non è mai stato concepito per essere un programma riservato ai bambini. Ma sappiamo bene che negli anni Novanta i colori e le animazioni hanno tratto in inganno più di un’emittente italiana. Di esperienze assurde con i cartoni animati ne ho avute a palate, almeno 7, e quell’incontro con Bart e Lisa ha contribuito a segnare il mio senso dell’umorismo, qualunque esso sia. Così quei personaggi gialli hanno continuato a scandire a intervalli regolari la mia infanzia, la preadolescenza, l’adolescenza e – a ben 33 stagioni dall’esordio – l’età adulta. Poi, di colpo, davanti al numero “33” realizzi che non solo sono passate tre decadi, ma che non ricordi nemmeno più quale fosse la prima puntata. Quando l’ho vista? Sicuramente la prima puntata che ho visto quel giorno da mia nonna non era la 01×01. Scommetto che pochissime persone hanno iniziato a vedere la serie di Matt Groening dal principio. Quindi qual è la prima puntata? Il pensiero vola subito a quella striscia con i disegnini spigolosi, appuntiti, nervosi e con le voci tremolanti. Ma quelli sono I Simpsons shorts, una versione preistorica della serie animata che messa a confronto con le ultime stagioni disorienta e confonde. Dunque, mi siedo e premo play, con aria svogliata perché so già cosa avrei pensato da lì a poco (una roba tipo: “ah ah, quanto erano ridicoli”). E invece…
Un Natale da cani (01×01), 17 dicembre 1989
Ormai sappiamo che il Pilot originariamente scelto non era quello che abbiamo visto. Oltre 13 milioni di persone, per problemi di animazione, il 17 dicembre del 1989 videro Un Natale da cani e non l’episodio previsto – diventato poi il finale della prima stagione – intitolato: Sola, senza amore. Simpsons Roasting on an Open Fire fu il primo episodio ufficiale nonché uno speciale natalizio. Facciamo la conoscenza del Piccolo Aiutante di Babbo Natale. Arriva a travolgerci l’ingenuità di Homer, l’irriverenza di Bart, la spocchia delle zie, la saggezza di Lisa, la malvagità di Mr. Burns e la solidità di Marge. Tenero, semplice, toccante. L’esordio de I Simpson – fortunato chi lo ha vissuto con consapevolezza – è perfetto. Se non avete voglia di recuperarlo su Disney+, eccovi serviti: la famiglia si sta preparando per il Natale, ma Burns ha tagliato i bonus natalizi. Marge è tranquilla. Sa che può contare sulla tredicesima di Homer, così utilizza i risparmi per far eliminare il tatuaggio che Bart ha fatto di nascosto: “I love Mom”. Per non deludere la sua famiglia, Homer è costretto quindi a fare un secondo lavoro vestendosi da Babbo Natale al centro commerciale. Il giorno di paga arriva, ma tra tasse, assicurazioni, previdenza sociale, il costume e altre voci che Homer ignorava, riceve tredici dollari. Su consiglio di Barney, Homer va alle corse dei cani insieme a suo figlio per cercare di far fruttare quella rendita miserissima, ma perde. In cambio, però, il Natale gli regalerà un cucciolo sfortunato tanto quanto loro: Santa’s Little Helper.
Ma è un perdente, è un patetico… è un Simpson!
I Simpson, 01×01
L’episodio ha conquistato subito sia il pubblico che la critica. Tuttavia non è il migliore episodio della stagione o della serie tv. Eppure, per usare le parole di Robert Canning in una recensione del 2008: “sebbene non sia il più divertente degli episodi, è stato certamente rivoluzionario”. E rivoluzionario è esattamente ciò che ho pensato riguardando il primo episodio a 33 anni di distanza. E di cose “rivoluzionarie” credo di averne viste. Ma il Pilot de I Simpson, nella sua semplicità, eleganza e irriverenza sa ancora di fresco. Trasuda innovazione e sincerità. In venti minuti d’episodio conosciamo i protagonisti, i personaggi ricorrenti e in qualche modo l’intera Springfield (sebbene non vediamo tutti i suoi abitanti). I Simpson invadono il piccolo schermo parlando di tredicesima negata, di abbandono di cani, di maltrattamento di animali, dello spirito commerciale che avvolge il Natale, della disobbedienza di Bart; riflettono sul significato di essere padre, quello di casa, di secondo lavoro, di tasse, di rimozione di tatuaggi. E tutto in uno speciale di Natale all’esordio di una serie tv animata che farà storia.
Sì, ricordavo di aver visto l’episodio. Ciò che non sapevo quando lo passavano su Italia 1 è che fosse il primo. Cioè quello del 1989. Cioè di 33 anni fa. Finito l’episodio, con un velo di commozione, cerco online l’ultimo (ad oggi) episodio ancora inedito in Italia, cioè Poorhouse Rock (33X22). Però l’effetto non è brusco come immaginavo. Anzi, non si notano nemmeno troppe differenze sostanziali come mi aspettavo. Almeno non tanto quanto succede riguardando la prima puntata di South Park (che è evoluto sotto ogni aspetto, dalla grafica alla regia, dalla trama verticale a quella orizzontale) oppure a quella di Family Guy (che negli anni ha perso mordente).
Non sembrano passati 33 anni, eppure manca qualcosa.
Il 22esimo episodio dell’ultima stagione è maturo. La grafica è migliorata. Indubbiamente. I dialoghi sono attuali, come i riferimenti agli influencer o a Netflix. Abbondano le guest star: Hugh Jackman è il custode, troviamo Megan Mullally nei panni di Sarah Wiggum e Robert Reich nei panni di sé stesso. C’è un nuovo sipario musicale: l’ennesimo, nelle ultime stagioni. C’è ritmo, gag, satira. C’è tanto, tantissimo. Eppure manca qualcosa. Manca quel qualcosa che fa sembrare rivoluzionario il primo episodio anche a 33 anni di distanza. L’upgrade è evidente. Anche le gag suonano meno ingenue e più articolate. Ma è proprio quella sorta di (finta) ingenuità che rende Un Natale da cani tanto speciale, rivoluzionario. La disinvoltura della trentatreesima stagione, la maturità grafica e narrativa e l’umorismo sfacciato, a confronto, mi sembrano piuttosto un difetto. Nel primo episodio la tragedia e la commedia sono inscindibili. Ridiamo, a denti stretti, vedendo Homer vestito da Babbo Natale che cerca di alzare tredici dollari. Dietro quell’animazione scadente, il design naif dei personaggi e il senso dell’umorismo ancora acerbo, invece, si nascondeva un gran cuore, una visione.
A confronto, la trama del primo episodio sembra avere una struttura semplice, ma solo in apparenza. Andando avanti, infatti, è facile accorgersi di quanto fosse ben articolata, costruita su livelli multipli che non vedi arrivare. Senza contare che si trattava dell’episodio in cui venivano introdotti i personaggi. Quasi per magia, nel giro di pochi minuti, abbiamo un quadro preciso dei personaggi più importanti dello show e delle loro peculiarità. Nell’ultimo episodio, invece, Bart sembra quasi aver dimenticato quanto faccia schifo il lavoro di Homer, solo per favorire la trama. Il 22esimo della stagione 2021-22 funziona, come sempre. È spassoso. Sa processare l’attualità con ironia e spregiudicatezza. È maturo, articolato, ma forse troppo maturo. La sitcom animata della Fox dimostra di avere ancora molti assi nella manica e di riuscire a mordere l’attualità. Negli anni, l’umorismo de I Simpson si è evoluto per restare al passo con i tempi. Le trame hanno preso una piega lievemente più orizzontale, la regia è più sciolta. Riescono a intrattenerci con la stessa dose disarmante di umorismo amaro e ad appassionare trasversalmente più generazioni. Eppure, prima di lanciarmi nella visione di questi due episodi, ero convinta che avrei trovato l’ultimo più solido, più simpsoniano, mentre ero sicura che avrei trovato il primo episodio troppo rudimentale. In senso dispregiativo.
Mi sono avvicinata al Pilot come si fa quando un bambino di prima elementare ti chiede di guardare il suo disegnino. Quindi assumi quell’espressione da adulto compiaciuto, sperando di riuscire a dissimulare ed evitare di ammettere che quell’insieme di scarabocchi è una m***a. Invece, con stupore, ti ritrovi tra le mani un signor disegno. Tanto che ti commuovi. Ingenuo, ma sentito, carico di significati e ignaro che in futuro diventerà il primo tassello di qualcosa di rivoluzionario. Ora che I Simpson sanno di essere I Simpson, ora che questa inconsapevolezza è svanita, resta solo un’ottima sitcom animata. La trentatreesima era stata annunciata come una stagione che avrebbe scioccato per la quantità di invettive e satira sociale. L’episodio è forte e ha diviso i fan. Una parte ritiene che Poorhouse Rock abbia riportato la serie ai suoi fasti mentre l’altra metà è certa che I Simpson siano arrivati al capolinea. Personalmente ho trovato l’episodio pungente, coinvolgente e molto ben articolato. Ma forse davo per scontato che lo fosse. Per questo non mi ha lasciato molto sul piano emotivo. Ho sentito la mancanza di quel nonsoché che a cinque anni mi ha fatto smettere di giocare a qualunque cosa stessi giocando mentre a 34 mi ha sorpreso come mai avrei creduto.
Così ho rivisto la prima e l’ultima puntata de I Simpson una dopo l’altra. E ho provato sensazioni molto contrastanti: ho trovato il primo episodio meravigliosamente ingenuo mentre ho trovato l’ultimo divertente e gradevole, ma fastidiosamente maturo.