È arrivato il momento di difendere Apu Nahasapeemapetilon, senza avere alcun dubbio. Lo facciamo oggi, nel bel mezzo del ciclone di polemiche che hanno coinvolto negli ultimi mesi uno dei personaggi più amati de I Simpson. Reo, a detta dei più critici, di incarnare stereotipi e cliché negativi degli indiani emigrati negli Stati Uniti. Tutto è nato nel 2017 con il documentario The Problem with Apu, realizzato dal comico statunitense di origini indiane Hari Kondabolu: un’analisi interessante e molto ben argomentata, condivisibile o meno che sia. Ma strumentalizzata semplicisticamente dai più, e ridotta ad una considerazione netta, senza sfumature né compromessi: I Simpson sono razzisti, generano razzismo e devono correggere il tiro al più presto.
È davvero così? Affermarlo significa smentire categoricamente quel che invece sono sempre stati I Simpson. Evidenziare un problema di razzismo in una delle serie tv più lucide, progressiste e intelligenti di sempre significa non saper maneggiare con cura il concetto di satira, fondamento basilare di una società in salute. Un problema non da poco, questo. A differenza del povero Apu, capro espiatorio di una polemica che meriterebbe, anche a detta dello stesso Kondabolu, un finale diverso rispetto alla paventata eliminazione del personaggio. Anche perché I Simpson avevano già dato la migliore risposta possibile molto tempo fa. E non ci riferiamo all’episodio dell’8 aprile scorso, No Good Read Goes Unpunished.
I produttori della serie, infatti, avevano deciso di mettersi al riparo e rispondere alle polemiche su Apu con il quindicesimo episodio della ventinovesima stagione. In quell’occasione Marge rilegge un vecchio libro che amava da piccola e si rende conto della presenza massiva di cliché, stereotipi e contenuti culturalmente offensivi. Dopo averlo “corretto” per leggerlo a Lisa, tuttavia, comprende di aver minato l’essenza stessa del racconto, rendendolo insensato. L’episodio, seppur non certo epocale, è un chiarissimo riferimento alle polemiche su Apu, ma il risultato auspicato (prendere tempo, in attesa di una decisione definitiva) non è stato raggiunto. E la provocazione non ha fatto altro che amplificare le critiche, fino ad arrivare alla possibile eliminazione del personaggio.
Sarebbe un peccato. E sarebbe una sconfitta per tutti, non solo per I Simpson. Perché Apu non è privo di difetti strutturali nella caratterizzazione ed è chiaramente ricchissimo di cliché e stereotipi, ma si potrebbe dire altrettanto di buona parte degli abitanti di Springfield. Questo è un problema? Affatto. È la base della satira simpsoniana, per certi versi non troppo diversa da quella che faceva Aristofane migliaia di anni fa. A patto che non si riducano gli stereotipi a meri espedienti comici, come è successo troppo spesso nelle ultime stagioni. I Simpson dovrebbero guardare indietro per guardare avanti. Tornare, per esempio, al 1995. E ad uno degli episodi più belli di sempre, grazie soprattutto al famigerato Apu. Il presunto complice di un messaggio razzista.
Parliamo del quinto della settima stagione, Lisa the Vegetarian. La piccola Simpson, dopo aver avuto un incontro ravvicinato con un tenero agnellino, decide di diventare vegetariana. La scelta si scontra con i dettami di una società troppo “carnivora” per comprenderla, e le crea più di un problema con scuola e famiglia. Homer, infatti, si infuria con lei a seguito di un incidente nel corso di una grigliata di gruppo, e la porta a scappare via di casa. Sarà il vegetariano Apu, in compagnia di Paul e Linda McCartney, a farle capire di aver sbagliato nel momento in cui si è mostrata intollerante nei confronti di una società intollerante, facendola così riappacificare col padre senza rinunciare alle sue idee.
Uno splendido messaggio, trasmesso da un personaggio, Apu, che ha evidenziato in quel momento una lucidissima visione multiculturale del mondo. Merce rara, 23 anni fa. Rarissima, oggi. Il momento più alto di un uomo del quale si sottolineano ora solo i limiti, dimenticando gli enormi pregi. Apu, d’altronde, non è uno qualunque: è un immigrato sbarcato negli Stati Uniti grazie ad una prestigiosa borsa di studio, conquistata dopo essersi laureato a pieni voti in India. È un lavoratore instancabile e un padre di otto figli che fa di tutto per mantenere la sua famiglia. Apu è, banalmente, un uomo positivo, seppur pieno di difetti. E non dovremmo dimenticarlo, nel momento in cui lo mettiamo alla gogna per un accento grottesco. Perché non è quello il vero problema.
Il punto è che se Apu fosse stato valorizzato negli ultimi anni come è stato fatto in Lisa the Vegetarian queste polemiche si sarebbero spente sul nascere. Stereotipi e cliché avrebbero avuto per tutti ancora oggi lo stesso valore satirico che avevano nel 1995, e non sarebbe mai stata messa in discussione l’eliminazione del personaggio. Ma non è andata così e gli autori, prima di prendere una decisione drastica, dovrebbero riflettere su questo. Lo spazio c’è ancora, come c’era 23 anni fa: Apu l’indiano sarebbe sempre Apu l’indiano, se non si isolasse la macchietta. L’uomo saggio del discorso sulla tolleranza, da ascoltare più e più volte. Emblema di una società multiculturale in cui vorremmo vivere. Abbastanza matura da saper ridere di se stessa.
Antonio Casu
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