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I Soprano è il più grande trattato televisivo sulla depressione

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Il Soprano, la nota più acuta che la voce umana possa mai avere, è anche quella impossibile da raggiungere per un uomo adulto.
Tony ti guarda, inclina il capo a destra e socchiude le palpebre come a filtrarti attraverso le ciglia: è il suo modo per farti capire che è già seccato dalla discussione.
Già, perché non puoi dire a Tony Soprano che una donna può arrivare dove un uomo è costretto a fermarsi.
Non puoi dire a Tony Soprano che un uomo può andare in terapia e palesare le sue debolezze, e che a curarlo dovrebbe essere proprio una donna.

Insignito di un cognome che rappresenta qualcosa che non potrà mai avere, Tony Soprano vivrà per sempre la vita di qualcun altro rimpiangendo quella che non gli spetta più.
È questo dualismo che apre la crepa più profonda nella psiche di Tony, e fa da principio a uno dei migliori trattati sulla depressione e sul nichilismo che la televisione abbia mai avuto la responsabilità di raccontare.
Tony era intelligente, dotato di una spiccata furbizia, un fisico robusto e un’innata propensione alla leadership. Tony poteva essere qualsiasi cosa, ma ha scelto quella più semplice da raggiungere e più difficile da “indossare” (perché quello lo scopri soltanto dopo).
Tony poteva essere un atleta o, chissà, addirittura un coach. Quanto gli sarebbe piaciuto fare il coach.
Tony poteva essere tutto, e invece è diventato retaggio.

Quel retaggio altro non è che l’insieme dei crismi di una cultura criminale quasi macchiettistica, alla quale Tony si sottopone facilmente e cerca di sottrarsi a fatica. La stessa cultura che per principio renderebbe inefficace la sua terapia. Perché se è vero che Tony ne trae beneficio, è soprattutto grazie all’uscita – seppur rapida e imbarazzata, sgusciante e limitata – dagli schemi del gangster.
Tony discute ed esprime apertamente le emozioni, ed è solo allora che la terapia è efficace: quando questo processo entra in conflitto con gli ideali tradizionali di ciò che significa essere maschi, ossia ostentare controllo e indipendenza che famiglia e amici si aspettano da lui.

i soprano

In questo passaggio – e non solo – la serie si è mostrata avveniristica e in grado di aggiungere qualcosa di concreto al panorama di competenza: per anni, e soprattutto in quegli anni, l’umorismo è stata la via più comoda per affrontare il tema della salute mentale (specie quella maschile), grazie all’espediente caricaturale della comedy che ha sempre mirato a semplificare e a suo modo esorcizzare il tema, prima del salto definitivo che passa da I Soprano e arriva a opere quali Mr. Robot.

Da un lato l’uomo che sarebbe voluto essere, dall’altro le sfumature bohèmien di un ruolo che è costretto a ricoprire stancamente, scendendo al compromesso antitetico di una leadership detenuta nel New Jersey, la succursale cafona di New York, quella rinnegata che soffre la mentalità retrograda che a Tony fa ancora comodo. Perché se c’è qualcosa che permette a Tony di tenersi in equilibrio tra l’uomo e il ruolo, è la possibilità di relegarsi in un regno ridimensionato che non ha ambizioni.
Quelle le lascia agli uomini di New York, ai sogni di potere del suo vecchio amico Johnny Sacrimoni e al disonorevole Phil Leotardo.

A Tony serve soltanto trovare realmente se stesso in quel santuario rivestito di pannelli di quercia che è lo studio della dottoressa Melfi, in una città che ormai lo accetta capo malgrado le sue debolezze.
Lì dove ammettere il dolore non significa più ammettere debolezza, Tony scopre l’origine – o meglio, le origini – del trauma e il motivo della sua depressione.

È sin dall’inizio che I Soprano ha chiarito di essere uno show sulla depressione e, in senso più ampio, sulla ricerca della felicità attraverso le occasioni mancate di un uomo diviso in due.
Il primo trauma rilevato dalla dottoressa Melfi sarà quello della carne, risalente alla prima violenza di cui è stato spettatore inerme: suo padre tortura un macellaio che non è in grado di pagare i suoi debiti, e la sera stessa i Soprano riceveranno a casa una fornitura di carne “a prezzo ridotto” che sua madre cucinerà ignara del precedente.
Proprio da questa sensazione di impotenza nei confronti di ciò che sfugge al nostro controllo, ma che indirettamente finisce per toccarci inconsapevolmente (l’idea che sua madre non sapesse da quale nefandezza provenisse la carne che giaceva nei loro piatti), è fonte del turbamento che Tony finirà per trasmettere a suo figlio Anthony Junior: l’ossessione per la guerra in Iraq e l’inquinamento globale e quindi il nichilismo, la convinzione che l’esistenza sia un “grande nulla” che agisce in maniera indipendente e inesorabile.

Il filo conduttore della profonda depressione trasmessa da Tony padre a Tony figlio, è rappresentata proprio da una battuta del ragazzo nella 6×19 (nel rifiutarsi di cenare), che si ricollega all’origine del trauma di suo padre: “sapete che spruzzano i virus sulla carne, nei mattatoi?”.

I soprano

Ma se la carne è il trauma d’origine, va sicuramente individuata anche la scintilla che inconsciamente apre la ferita.
Dal momento esatto in cui le anatre lasciano il suo giardino, la vita di Tony diventa più di prima un baudelairiano alternarsi tra figura ruolistica e figura umana.
L’abbandono del nido, la fuga dal covo familiare e la realizzazione dell’abbandono paradossalmente non portano Tony vicino a sua moglie e ai suoi figli, quanto più ai suoi genitori e a suo zio.
Così proverà a sopperire all’assenza di dialogo costruttivo con sua madre, ma al contempo negherà lo stesso dialogo ai suoi figli.
Proverà a farsi accettare da suo zio Corrado, e questo sarà uno dei rapporti chiave nel decifrare l’allegorica spirale depressiva del protagonista, che nasce dalla fuga delle anatre.

Nella scacchiera emotiva di Tony Soprano, ormai decimata, la figura di zio Junior deve per forza corrispondere a quella sostitutiva del padre.
Lui, Corrado, l’uomo che gli era stato più vicino in vita.
La coppia che “comandava il New Jersey”.
Il padre putativo che Tony ha cercato, ha finito per rischiare di essere più volte il boia, e questo ha condizionato in maniera significativa la terapia, rappresentando un banale e definitivo colpo di grazia.
Se l’abbandono delle anatre nella prima stagione sono il timore per ciò che può verificarsi, allo stesso modo la perdita progressiva e semi-consapevole di zio Junior nelle ultime stagioni è una profezia che si autoadempie.
Se Tony avesse perso Corrado con la morte, non sarebbe stato lo stesso.
A due tempi lineare e maledetta, l’opera di David Chase impone che zio Junior non muoia per abbandonare Tony, bensì lo rinneghi, e lo faccia in una maniera beffarda e goffa, ignobile e a tratti umiliante.
In un modo che Tony, anche supportato dalla terapia, non avrebbe mai potuto razionalizzare del tutto, e che avrebbe alimentato la paranoia del protagonista in maniera definitiva. Senza possibilità di chiarimento.
Tra i due, dopo lo sparo, non ci sarà più chiarezza e Tony non avrà più occasione di avere un dialogo ragionevole con suo zio, identità ormai cancellata dall’Alzheimer.
Per perdere ogni appiglio e sprofondare nell’irrimediabilità che è legge inderogabile del personaggio di Tony Soprano (la sua impossibilità di cambiare, per quanto ci provi), questo avrebbe dovuto perdere suo zio nella malattia mentale, non nella tragedia.

Perfino nel suo ultimo sospiro smorzato, I Soprano riesce col cut-to-black a rappresentare l’infinita profondità del nulla che attanaglia una personalità depressa, che teme la morte nella realistica possibilità che ad attenderlo ci sia niente.

La rappresentazione della completezza senza definitività. Il tutto racchiuso in una sospensione eterna.

Come fa questa storia a essere tutto questo?
Tutto questo: ciò che si è contemporaneamente, in vita o nei desideri eternamente assenti di realtà abbandonate.
E chissà che se Tony non avesse mai smesso di crederci, come suggerisce la canzone che lui stesso sceglie per il finale della sua storia, ora staremmo raccontando la vita di uno straordinario coach di football.

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