ATTENZIONE! La recensione contiene SPOILERS del secondo capitolo di Il buco.
Nel 2019, un film spagnolo uscito un po’ per caso su Netflix aveva generato un’onda d’urto mediatica di proporzioni globali. La pellicola mescolava insieme horror, thriller psicologico e una buona dose di critica sociale alla Black Mirror che, inevitabilmente, strizzava l’occhio al filone distopico che piace sempre al pubblico. Intellettuale e non. Il buco si presentava come una spietata analisi della condizione umana, delle sue disuguaglianze e delle gerarchie sociali, espressa attraverso una narrazione precisa, quasi chirurgica, tra metafore e immagini fortemente simboliche.
Ambientata in una prigione verticale chiamata “Il Pozzo”, una struttura composta da un numero indefinito di livelli, la storia ruotava attorno a uno specifico prigioniero e alle sue interazioni con gli altri. Ogni livello, infatti, ospita due prigionieri, i quali possono mangiare solo ciò che resta quando la piattaforma raggiunge il rispettivo piano, portando inevitabilmente a una distribuzione disuguale delle risorse. I detenuti di livello superiore mangiano a sazietà, lasciando le briciole – o peggio – per quelli sottostanti.
La società de Il buco non è solo indifferente alle sofferenze di chi è in basso, ma è deliberatamente organizzata in modo da perpetuare questa disuguaglianza.
Il film pone quindi domande profonde: fino a che punto l’essere umano può spingersi per sopravvivere? Quali sono i limiti dell’empatia in un sistema disumanizzante? Il protagonista Goreng, attraverso il suo viaggio, si trasforma da spettatore passivo a protagonista attivo, cercando di cambiare il sistema da dentro. Macchiandosi persino di azioni efferate, Goreng baratta la propria moralità per ricercare una giustizia assoluta. Il suo tentativo di convincere gli altri prigionieri a cooperare per una distribuzione più equa del cibo rappresenta l’ideale utopico di solidarietà, che però si scontra con la brutalità della natura umana e la disperazione.
Ogni livello del Pozzo rappresenta uno strato diverso della società, e il sistema che li governa non fa nulla per cambiare l’ordine delle cose. È una rappresentazione estrema del mondo reale, dove i privilegiati mantengono il loro status a discapito degli altri, mentre i meno fortunati combattono tra di loro per la sopravvivenza, senza poter guardare oltre il proprio immediato bisogno. La piattaforma stessa è un simbolo potente. Parte come una rappresentazione del sogno consumistico: cibo abbondante e variegato per i ricchi, che però diventa sempre meno man mano che scende, fino a scomparire del tutto per i più poveri. Chi è in alto consuma in eccesso, senza curarsi delle necessità di chi sta in basso.
In questo secondo capitolo, che in realtà non è altro che un prequel, la trama approfondisce le dinamiche del “pozzo” e sui sui abitanti.
In Il buco 2 (disponibile sul catalogo Netflix qui) ha luogo approssimativamente alcuni mesi prima rispetto agli eventi narrati nel primo capitolo. Una consapevolezza che emerge all’incirca a metà della pellicola e che trova la sua conferma nel finale. Ancora più ambiguo rispetto al primo capitolo se possibile. All’interno del “pozzo”, stavolta, i prigionieri sembrano essersi divisi in due gruppi: i lealisti e i barbari. I primi stabiliscono le regole, tentano di mantenere l’ordine e si preoccupano che la distribuzione del cibo rimanga equa. Anche a costo di ricorrere alla violenza contro i secondi, ovvero i barbari che inneggiano all’anarchia e alla libertà più sfrenata ed egoistica. Le regole che i lealisti seguono sono state imposte dal leader Babi. Un uomo spietato, una sorta di dio da Antico Testamento che non conosce sfumature di grigio.
Le regole sono molto chiare: mangiare solo il cibo predestinato, non lasciare avanzi nella cella, buttare il cibo in eccesso. E punire gravemente coloro che non sottostanno a tali regole.
Laddove Il buco (qui la nostra recensione) indulgeva maggiormente nell’ingordigia e nella gola, stavolta sono l’ira e la superbia i peccati capitali messi in scena. Ah, a proposito di peccati capitali, ma voi l’avete mai visto Se7en di David Fincher? Zamiatin è un un uomo che non conosce disciplina e che non riesce a trovarla all’interno del “pozzo”. Riconoscendo tuttavia i propri limiti decide di sacrificarsi per il bene collettivo, di accettare la punizione che permetta al sistema “equo” di resistere un altro giorno. Come ben presto capisce la sua compagna di cella Perempuan, però, il sistema è solo la manifestazione suprema di un altro tipo di ingiustizia.
Quella subdola e contorta del leader Dajin Babi. La tirannia che Dajin ha imposto con il terrore e la sofferenza rinchiude gli abitanti del “pozzo” in una prigione dell’anima. Oltre a quella fisica in cui già si trovano. Il caos e la forza bruta, quindi, diventano paradossalmente la sola via di fuga per potersi riscoprire liberi, per poter affermare la propria volontà e individualità. In Il buco 2, c’è un confronto di punti di vista diametralmente opposti e che, necessariamente, si inserisce in un contesto totalmente distopico.
Cosa accade all’essere umano quando è messo alle strette? Quale parte di sé ha la meglio fino alle estreme conseguenze?
L’uomo di pancia e l’uomo di mente si scontrano in un conflitto in cui i primi agiscono per puro istinto bestiale, mentre i secondi in nome di una logica fredda e priva di empatia. In mezzo si staglia Perempuan, la donna-cuore, che agisce dall’inizio alla fine mantenendo la propria umanità e combattendo per essa. Lei che è finita ne pozzo per aver involontariamente ucciso un bambino. Perempuan compie un percorso di redenzione che passa attraverso l’incontro con svariati tipi umani. Per poi culminare con un atto di altruismo disinteressato che mette in salvo la sua anima.
Là, oltre il livello 333, dove il Pozzo sprofonda nell’abisso, l’essere umano ha ritrovato l’unità.
Non esistono più schieramenti, visioni opposte o fazioni. Nell’oscurità al di sotto della struttura, vivono nell’ombra gli eletti. Coloro che sono andati oltre la fame e sono ascesi pur sprofondando sempre più in basso. Il buco 2 rimane criptico quanto il suo predecessore, senza rispondere a nessuna domanda e, anzi, facendone sorgere di nuove. Il ruolo dei bambini sembra, ancora una volta, quello di un test finale. Come se salvando quell’unico bambino, periodicamente, si decidano le sorti di tutto il “pozzo”. In un ambiente del genere, una sola azione di gentilezza e altruismo può ancora realizzarsi se anche un solo essere umano ne è capace. E se anche un solo essere umano è ancora capace di provare pietà e e abnegazione, allora forse c’è speranza per l’umanità intera.
La redenzione di Perempuan avviene anche grazie ai piccoli atti di gentilezza che incontra nel suo cammino. I suoi compagni di cella, che rivede nel finale sotto forma di visione, le permettono di mantenere una morale e di perdonarsi. Nel film Il buco c’è tanto di un altro franchise singolare che dovreste davvero recuperare: The Cube. Anche nella pellicola del 1997 diretta da Francesco Natali, un gruppo di persone si ritrova all’interno di una spazio ristretto, dalle regole ferree e dalle punizioni mortali. Nel cubo, emerge man mano la vera natura dei protagonisti che diventano metafora dei vizi e virtù dell’essere umano.
Il buco fa più o meno lo stesso, seppur attraverso un setting differente e una violenza grafica decisamente maggiore.
La brutalità è messa in scena senza tanti giri di parole. Il buco 2 è un interessante studio sociale ma manca quel plus che lo faccia distinguere davvero dal primo capitolo. Ci sono ottime idee, ottimi spunti ma nessuno di questi viene davvero portato avanti in maniera efficace. La seconda metà del film scorre in maniera più caotica rispetto alla prima, perdendosi in scene di violenza e gore che non aggiungono nulla alla trama e decentrano il focus dal personaggio di Perempuan.