“Giace qui l’hidalgo forte che i più forti superò, e che pure nella morte la sua vita trionfò. Fu del mondo, ad ogni tratto, lo spavento e la paura; fu per lui la gran ventura morir savio e viver matto” -Don Chisciotte della Mancia
Una prigione verticale, un libro, un coltello, una bimba, un buco. Tanto cibo (o forse troppo poco), un esperimento sadico, un Messaggio. Sadico anch’esso, sicuramente provocatorio ma altrettanto penetrante, sbattuto in faccia con la crudezza che contraddistingue tutta la pellicola. In questi giorni sta spopolando letteralmente Il Buco, film spagnolo di Galder Gaztelu-Urrutia, acquistato da Netflix e da poco rilasciato sulla piattaforma anche in Italia.
Il Buco è “tanto in poco”. Non è certamente la prima volta che il cinema o la tv affrontano il tema delle classi sociali (la stessa N rossa lo ha fatto con la serie brasiliana 3%) ma questa si configura come una di quelle pellicole essenziali. Essenziale perché necessaria, essenziale perché riesce a raccontare la sua storia senza fronzoli, arrivando dritta alla mente e allo stomaco dello spettatore.
La Trama de Il Buco
Tutta la storia è appunto ambientata in una prigione verticale, composta da centinaia di celle, disposte una sopra l’altra e abitate da due prigionieri ciascuna. Il comune denominatore di questo luogo è il cibo, croce e delizia, emblema al tempo stesso dell’appetito e del disgusto. Esso viene calato una volta al giorno, un piano alla volta, dall’alto verso il basso. In teoria sarebbe sufficiente a sfamare tutti i reclusi, nella pratica diviene simbolo della matrice metaforica che permea l’opera.
La critica al consumismo e al capitalismo è evidente nel comportamento sociale degli ospiti della struttura. Quelli ai piani più alti – i primi a ricevere il cibo – non si accontentano della propria razione ma si “abbuffano” senza ritegno. Col risultato che chi si trova ai livelli inferiori resta sistematicamente a digiuno, generando situazioni estreme di sopravvivenza che prevedono l’omicidio e il cannibalismo.
Il Buco è però una livella e, in quanto tale, estremamente democratico. Ogni mese infatti, in maniera randomica, i prigionieri si svegliano abitando un livello diverso dal precedente e la situazione si ribalta: i ricchi (di cibo) diventano i poveri e viceversa. Ciò nonostante, tuttavia, nessuno si rivela capace di provare empatia, pensando alla comunità prima che a se stesso.
Il nostro protagonista è Goreng, che decide di entrare volontario nel ‘hoyo’, scegliendo di portare con sé come unico oggetto il libro da cui abbiamo tratto la citazione d’apertura: Don Chisciotte della Mancia. Nel buco Goreng affronta il suo personale viaggio dantesco insieme ai suoi “compagni” di cella. È nel rapporto con il vecchio e pragmatico Trimagasi (prima) e con Imoguiri (poi) che il protagonista tocca il fondo prima di raggiungere la catarsi.
La spiegazione de Il Buco e del finale
Trimagasi e Imoguiri rappresentano le due opposte visioni del Buco, quella materialista e quella idealista. Il primo spiega a Goreng come sopravvivere, sulla sua stessa pelle, legandolo di nascosto per assicurarsi di essere carnefice e non vittima al momento opportuno. Quando, cioè, la fame imporrà che uno mangi l’altro. La seconda, ex dipendente dell’Amministrazione che gestisce la prigione, si prodiga per far sì che ognuno mangi esclusivamente ciò che gli spetta.
Goreng interiorizza ed è costretto a far sue entrambe le visioni. Dapprima, con l’aiuto di Miharu (la sua personale Beatrice in questo viaggio) si vendica di Trimagasi, uccidendolo e mangiandolo, diventando ciò che più ripugnava del vecchio. Poi cerca di aiutare Imoguiri, fino al suicidio di quest’ultima. Ma soprattutto l’uno e l’altro approccio diventano parte di sé nella parte finale del film, quando il protagonista si trasforma in demiurgo distribuendo personalmente le razioni di cibo a tutti i prigionieri, insieme a Baharat. Per farlo, tuttavia, non può fare a meno di ricorrere alla violenza e all’omicidio di quanti vogliono prendersi il cibo con prepotenza.
Il suo viaggio si conclude al livello più basso, la cella n. 333 (anche qui, un numero non casuale se si pensa all’allegoria del 3 nella Divina Commedia). Lì trova la figlia di Miharu. Una bambina in quel posto è un punto di rottura, un limite che non dovrebbe essere superato e, per tale, rappresenta il Messaggio all’amministrazione che porrà fine a questo meccanismo perverso. Goreng è altresì consapevole di non poter “elevarsi” insieme alla bambina, in quanto ormai troppo corrotto e segnato da questa esperienza. Pertanto resta lì a espiare le sue colpe dopo essersi sacrificato per la comunità, da vero eroe donchisciottesco.
Il Buco è una genialata
Il Buco rappresenta in maniera letterale la struttura architettonica della prigione e, in maniera relativamente astratta è anche il buco dello stomaco, la “fame” che determina l’agire dei prigionieri. È un gioco perverso e brutale, ma prima di tutto, senza giri di parole, è una genialata. Perché è capace di intrattenere con pochi personaggi racchiusi in sole quattro mura, facendo leva su un’allegoria dirompente e su una critica sociale (e sociologica) altrettanto potente. Perché nonostante questa rappresentazione scenografica più vicina al teatro che al cinema stesso, non manca di evidenziare virtuosismi stilistici. L’eccesso di luce rossa nelle scene più brutali del film, ad esempio, è un tocco di classe che aiuta lo spettatore a calarsi nel mood del racconto e, al tempo stesso, attenua l’orrore per ciò che stiamo vedendo. Sarà forse il periodo, sarà che il tema del gap sociale è tornato prepotentemente di moda, visto anche il successo di Parasite agli Oscar, ma Il Buco è un film da non perdere. Un pugno in faccia – e allo stomaco – lungo un’ora e mezza che ci lascia dentro qualcosa. E non è la fame.