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Ma che davvero Michael Douglas ha fatto una Serie Tv?

Questa è la comprensibile domanda di quei quattro gatti che, come me, si sono imbattuti ne Il Metodo Kominsky, spulciando a caso il catalogo Netflix. Un mix di curiosità e spaesamento dovuti al fatto che nessuno ne avesse mai parlato prima. Mai. Neppure al cospetto della presenza di uno dei più grandi attori di Hollywood per la prima volta protagonista di una serie Tv, appunto Michael Douglas, dell’ottimo Alan Arkin nei panni del co-protagonista e di Chuck Lorre (il padre di The Big Bang Theory) in qualità di showrunner e produttore esecutivo.

Ma perchè diavolo non hanno pubblicizzato ‘sta roba?

Questa è invece la naturale reazione dopo aver visto il primo episodio. Una sensazione che si acuisce fino alla fine degli otto episodi da circa mezz’ora l’uno (tant’è, infatti, la durata della stagione) ed è conseguenza ineluttabile di un prodotto che ci mette davvero pochissimo a conquistare chi lo sta guardando. Proviamo a spiegarne i motivi e proviamo a farlo adesso, perchè il rischio che finisca nell’oblio, dato il poco risalto mediatico, è molto concreto.

La cosa bella de Il Metodo Kominsky è che mantiene fino in fondo la sua promessa.

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Il Metodo Kominsky è esattamente ciò che si propone di essere ed è esattamente ciò che tu ti aspetti che sia. Una dramedy, senza fronzoli. Un prodotto che spazia dalla leggerezza (ma attenzione, non confondiamola con “banalità”) alla malinconia senza soluzione di continuità. Che fa della verosimiglianza la pietra portante della propria (amara ironia). E per riuscire a scherzare su un tema del genere (tra poco arriviamo anche a quello) o hai a disposizione Jack Nicholson e Morgan Freeman e realizzi quel capolavoro senza tempo che è Non è mai troppo tardi.

O hai Michael Douglas e Alan Arkin che “ti spiegano la vecchiaia” a metà tra il fancazzismo del Drugo Lebowski e la complicità di Thelma e Louise. Tra i due settantenni (entrambi Premi Oscar, vale la pena ricordarlo) scorre una chimica che buca lo schermo. Douglas è Sandy Kominsky, attore in decadenza, anima rock, che si barcamena in relazioni con donne molto più giovani e che si è riciclato come ottimo insegnante di recitazione; Arkin è invece il suo migliore amico e agente, Norman Newlander, devoto alla moglie e, tutto sommato, agli antipodi caratterialmente rispetto a Sandy. Entrambi, dunque, hanno un diverso modo di approcciare alla vita e, in special modo, al tempo che scorre inesorabile.

Già, per un’opera che fa della normalità il suo punto di forza, il tema portante non può che essere la vecchiaia e come affrontarla.

il metodo kominsky 2

Nessuno ha un manuale d’istruzioni su come affrontare l’ultima fase della nostra esistenza. Quella costellata da inevitabili problemi di salute («ormai piscio in codice morse, a punti e a trattini») alla scomparsa della libido sessuale, dalla nostalgia dei bei tempi andati al fardello della morte che si abbatte su di te e sui tuoi coetanei senza poter sfoderare nessun’arma a propria difesa. Tutto però assume un senso, se hai una persona con la quale puoi misurarti, a suon di frecciate, scherzi e sostegno reciproco. Tutto assume un senso se riesci a entrare nell’ottica che non sei solo. E a ripetertelo ogni giorno, come un mantra.

Questo è ciò che prova a farci capire Il Metodo Kominsky, senza mostrarci il dramma nella sua concretezza (come avviene, appunto, per Non è mai troppo tardi) ma suggerendolo tramite immagini e dialoghi. Spesso anche molto, molto divertenti. Bastano tre o quattro personaggi regular e una ventina di comparse, poche ambientazioni e una regia ordinata (eccezion fatta per uno scavalcamento di frame nel penultimo episodio fastidiosissimo da vedere) per realizzare una dramedy eccellente. Bastano soprattutto loro due, i protagonisti, alla prima esperienza in una serie Tv e capaci di sembrare dei veterani del piccolo schermo grazie solo ed esclusivamente al loro talento.

In pieno stile Netflix il finale funziona perfettamente sia come finale assoluto che come apriporta in vista di una eventuale seconda stagione. Ma nell’uno e nell’altro senso colpisce come la piattaforma non abbia minimamente dato risalto a questo gioiello che rischia di passare completamente inosservato al cospetto di un catalogo sempre più ricco e variegato. Ma una cosa così mancava ed è giusto che abbia un seguito. Altrimenti, tra molti anni, all’età di Sandy e Norman, saremo lì a chiederci:

Ma che davvero Michael Douglas ha fatto una Serie Tv? 

(E no, guai a dare colpa all’alzheimer)

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