ATTENZIONE: l’articolo potrebbe contenere spoiler su Black Mirror.
Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
Dopo essersi affermato nella televisione inglese con la sua brillante scrittura, Charlie Brooker si è lasciato ispirare da successi come The Twilight Zone e Tales of the Unexpected per creare una nuova serie antologica. Un prodotto che potesse mettere in luce il nostro rapporto con la tecnologia e i pericoli derivanti da esso. Ed è così che, unendo il suo background satirico a distopie cupe e inquietanti, il buon Brooker ha dato vita a Black Mirror (qui la classifica dei suoi 22 episodi secondo IMDb). Quando si parla di questa serie i sentimenti in ballo sono sempre piuttosto contrastanti. Se da un lato abbiamo un immenso amore per le prime stagioni, dall’altro troviamo invece delusione per uno show che forse non è più necessario come un tempo. Sensazioni che la maggior parte degli spettatori ha iniziato a provare a partire dall’acquisizione di Netflix, uno spartiacque che ha comportato tanto un aumento di budget quanto un declino difficile da ignorare. Ma facciamo un passo indietro.
Uscita nel 2011, la Black Mirror degli esordi era cruda, sconcertante e talmente diretta nel raccontare la degradazione umana da non poter essere ignorata. Con soli pochi episodi, lo show era riuscito infatti a metterci di fronte a paure e paranoie profonde, così come a quelle curiosità perverse che Brooker sapeva potevano essere passate nella mente degli spettatori. Tutto questo ha preso vita con forza nello show, dimostrandoci quanto – se messi nella condizione ideale – tutti noi potremmo cedere ai nostri peggiori istinti. Dunque, pur sviluppandosi attraverso scenari estremi e a tratti grotteschi, i mondi distopici presentatici non ci sono sembrati tanto distopici. Così come i personaggi dai quali avremmo voluto dissociarci hanno dimostrato di essere più vicini a noi di quanto avremmo voluto ammettere.
Immaginandosi il futuro, Black Mirror ha finito per parlarci del nostro presente.
Delle nostre scelte e dipendenze, così come della nostra natura fallace. Difatti, nonostante il titolo richiami gli schermi neri dai quali ormai siamo dipendenti, non è mai la tecnologia a essere protagonista ma il terribile utilizzo che ne facciamo. Il modo in cui, per convenienza o debolezza, lasciamo che questi strumenti assecondino i nostri desideri, spesso compromettendo i nostri stessi principi. Quella che poteva sembrare una morale amovibile crolla facilmente di fronte alla possibilità di migliorare la propria posizione, o a quella di screditare il prossimo. E quello che doveva essere un mezzo con il quale migliorare la nostra esistenza si rivela ben presto un’arma a doppio taglio, capace di distruggere e distruggerci.
Cercando nei meandri di una società moderna e delle sue future tecnologie, Brooker ci ha messo di fronte al disfacimento delle relazioni umane. The National Anthem e White Bear ne sono un perfetto esempio: in entrambi gli episodi viene messo in scena il disinteresse della collettività nei confronti delle sofferenze – fisiche e psicologiche – del singolo. Non importa se sia vittima o carnefice, ciò che conta è il perverso desiderio di vederlo umiliato o punito per le sue colpe. In The Entire History of You e Be Right Back vengono invece messe in luce con struggente intimità le emozioni e legami personali, mostrandoci quanto possano portarci alla deriva.
E che dire di Fifteen Million Merits?
Una storia capace di mostrarci quanto la nostra morale possa essere abbattuta in un batter d’occhio da cinismo ed egoismo: sin dall’inizio il protagonista ci viene presentato come una figura positiva, l’unica con il coraggio di denunciare la farsa nella quale vive giorno dopo giorno. Ma così come il sistema, anche l’essere umano dimostra di essere corrotto e quello che doveva essere l’eroe della storia finisce per cedere all’edonismo che aveva precedentemente criticato.
L’amoralità prende così il posto del buonismo, sconvolgendo gli spettatori con un’agghiacciante rappresentazione della realtà.
Creativa e audace, la Black Mirror degli esordi ha navigato negli abissi oscuri della mente umana, senza mai avere paura di essere diretta. Forte del suo fascino britannico, lo show ha lasciato il segno grazie al coraggio di raccontare storie tanto vere quanto brutali, mettendoci di fronte a realtà in cui il lieto fine è un’irrealistica utopia. Contraddistinti da un pessimismo senza via di fuga, i primi due capitoli dello show sono stati infatti capaci di illustrarci il nostro mondo senza mezzi termini o ipocrisie. Di darci un inaspettato e violento schiaffo sulla nuca, lasciandoci con l’ansia di poter riceverne un altro senza alcun preavviso. E con l’illusione di poterlo scansare in tempo.
È questo ciò che ha consacrato Black Mirror come una pietra miliare della televisione. È questo ciò che ci ha fatto innamorare dello show, nonostante ci lasciasse sempre con un profondo senso di inquietudine. E anche se già a partire dalla terza stagione ci sono stati alcuni episodi più sottotono, lo show ha continuato a sconvolgerci e rapirci. Basti pensare a Nosedive, Shut Up and Dance e San Junipero, dimostrazioni di come la creazione di Brooker fosse ancora in grado di analizzare l’intricato spettro delle emozioni e comportamenti umani.
Tuttavia, con l’acquisizione di Netflix Black Mirror si è fatta lentamente contaminare, accettando un budget che se da un lato ha potenziato visivamente la produzione, dall’altro ha accantonato la sceneggiatura dal sapore unico.
Con l’arrivo della quarta stagione, c’è stato infatti un cambio di rotta inaspettato, che ha portato a trame e personaggi che difficilmente siamo riusciti ad amare (od odiare) fino in fondo. La tensione, l’ansia tecnologica di stampo orwelliano sono sparite, dando spazio a sceneggiature prolisse ed emozioni piatte. Ed è così che Black Mirror non è più stata Black Mirror, trasformandosi gradualmente in un trionfo di occasioni mancate. Di spunti interessanti che, pur avendo potenziale, sono stati analizzati con superficialità, accantonando così la narrazione profonda e conturbante che ne aveva plasmato l’essenza.
Pur riuscendo ancora a immaginarsi il futuro e la conseguente deriva tecnologia, lo show non è stato più capace di scavare nella caratterizzazione dei personaggi, e questo non ha potuto che danneggiarlo. In Playtest la tecnologia viene trattata semplicemente come il cattivo della storia, senza andare ad analizzare la mente del protagonista. La stessa cosa succede anche in Metalhead, un episodio in cui lo scopo principale non è esaminare la società moderna e il lato oscuro del pensiero umano, ma scioccare gli spettatori con il suo aspetto horror/thriller.
Inoltre, con USS Callister è diventato sempre più chiaro quanto lo show stesse virando verso un ritrovato ottimismo: se prima gli episodi erano contraddistinti da un inevitabile senso di angoscia e sconfitta, quelli successivi hanno iniziato a proporre lieti fini forzati. I nuovi protagonisti sono diventati così eroi di storie contraddistinte da un inusuale buonismo, da un barlume di speranza che ha stravolto la natura dello show. Difatti, la Black Mirror degli esordi non voleva motivarci o confortarci, ma metterci di fronte alle nostre paure e farci riflettere sulle nostre mancanze.
Attraverso scenari estremi – ma non per questo impossibili – lo show ci ha mostrato il marcio della nostra esistenza, sconvolgendoci con dure lezioni di vita.
Sia chiaro, lasciare gli spettatori con un messaggio di speranza non è di certo un crimine (soprattutto in un periodo come quello che stiamo vivendo adesso), ma ciò non toglie il fatto che tutto ciò abbia annientato l’anima di Black Mirror. Un prodotto artistico e narrativo che non solo era unico nel suo genere, ma estremamente necessario: attraverso i suoi scenari distopici, Brooker ci ha costretto a guardare la decadenza della società futura con gli occhi del presente, spingendoci a comprenderne le complicazioni e agire di conseguenza.
Purtroppo, questa volontà di indurre alla riflessione è stata schiacciata da grandi budget e una dimensione sempre più mainstream. Da storie tanto ben confezionate quanto dimenticabili, e la quinta stagione ne è un perfetto esempio.
Da essere una perla rara, Black Mirror ha finito per trasformarsi nell’ennesimo prodotto d’intrattenimento di Netflix. Un declino che nasce dalla mancanza di idee, così come dall’annullamento della distanza fra la realtà del passato e quella in cui ci troviamo adesso. Negli ultimi anni, il nostro mondo ha infatti implementato molti degli aspetti distopici dello show, tanto che ci siamo trovati di fronte situazioni inquietantemente simili a quelle immaginate da Brooker. Se poi consideriamo la pandemia che ci ha colpito, è chiaro quanto il nostro mondo sia ormai contraddistinto da sfumature decisamente blackmirroriane. Eppure, nonostante forse oggi non ci sia più lo stomaco per storie su società a pezzi, il panorama televisivo non potrebbe che trarre beneficio da quella che era stata la Black Mirror di Channel 4.
Un tempo una produzione che aveva il potere di far fermare lo spettatore, spingendolo a riflettere su ciò che aveva visto. E oggi uno specchio che, incrinato dai suoi errori, non è più in grado di rifletterci.