Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.
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Skins è una serie semplice. No, anzi, è difficilissima. Skins puoi capirla. No, anzi, devi metterci un po’ di tempo. Skins è una serie da guardare quando sei adolescente. No, anzi, va guardata quando sei più grande. Skins insegna tanto. No, anzi, è la cosa da cui devi stare più lontano. Oddio. Cosa è davvero Skins?
Skins è contraddizione, l’antagonista per eccellenza dell’adolescenza, o forse la sua migliore amica. Puoi guardarla per curarti, o puoi farlo per distruggerti. Nonostante tutto, sei comunque sicuro che qualcosa accadrà. Avrà un effetto sulla tua persona, non ti lascerà appeso nell’indifferenza, non sarà un fantasma. La starai guardando e tutto fluirà verso una narrazione che non si stancherà un attimo di essere osservata, fissata. In un certo senso Skins rappresenta un’esperienza che assume delle sembianze reali per alcuni, surreali per altri. Dipende tutto dal contesto in cui sei cresciuto, dalla vita che hai scelto di fare. Ma anche se dovessi trovarti dal lato più lontano della storia, lei sarà in grado di inondarti e avvolgerti dentro una morsa che stringe e ti costringe a empatizzare, a capire.
La serie va avanti per sette stagioni e si divide nel racconto di tre generazioni diverse. Ognuna di loro vive i propri drammi cercando forse di non venirne a capo, godendo di quella forza rivitalizzante che solo la tristezza può dare.
La prima generazione è l’inizio di tutto. Skins preme il tasto start e comincia a raccontare le vite di un gruppo di adolescenti che si dividono tra feste, vizi e incertezze. La narrazione si divide in soli otto episodi (massimo dieci) per stagione e proprio per questo motivo decide di rendere ogni personaggio protagonista di un episodio a testa. Con questa scelta Skins riesce a dare – più o meno – il giusto spazio a tutti. Nessuno prevarica sull’altro, e nessun protagonista ci stanca. Proprio così nella prima stagione conosciamo Tony, Sid, Michelle, Cassie, Chris, Jal, Maxxie, Anwar ed Effy (che rivedremo a capo della seconda generazione).
La prima e la seconda stagione, così, seguono le vicende di una generazione che riesce a diventare iconica fin da subito. La presentazione che Skins fa di sé è impeccabile: tutto combacia, tutto ha un equilibrio. Nonostante alcuni toni più crudi, riesce a presentarsi a noi come una storia assolutamente reale sull’adolescenza. Un racconto che il nostro vicino di casa, o noi in prima persona, potremmo aver vissuto o star vivendo.
Rapporti umani difficili, traumi, incidenti che mettono a rischio la vita, la tragica morte di qualcuno a cui teniamo, drammi adolescenziali. Nella prima generazione tutto riesce a combaciare perfettamente, regalandoci un racconto che ha intenzione di vivere, dire la sua e poi fare spazio a una nuova realtà.
La prima generazione così riesce a conquistare tutti: promette la verità e nient’altro che la verità. Mette in gioco l’empatia dei personaggi e li rende estremamente umani. Nessuno all’interno di Skins è cattivo: è solo il fulcro delle proprie catastrofi, dei propri malfunzionamenti. Anche il personaggio all’apparenza più disastroso conoscerà la battuta d’arresto e comprenderà che la propria autodistruzione deve premere il tasto stop.
Questo riesce a essere il punto che di più avvicina il telespettatore alla storia, facendogli superare il confine che esiste tra lui e lo schermo. Vedrà i personaggi evolversi: in alcuni casi capirà il momento esatto in cui il cambiamento inizia, in altri no perché semplicemente il cammino sarà naturale e spontaneo.
Le premesse, nel lontano 2007, erano perfette. Si riconfermano anche nella seconda stagione che si concentrerà sulla crescita dei protagonisti della prima generazione. Questo è sempre stato un ottimo metodo in Skins perché riusciva a creare un tempo ben definito in cui, anche in silenzio, i personaggi avevano modo di evolversi. Ritrovarli dopo qualche mese significava guardarli mentre cercavano di rielaborare i drammi della prima stagione. Il cambiamento appariva tangibile e così il racconto poteva iniziare di nuovo in modo coerentemente diverso.
Ma dopo la prima generazione inizia la seconda. Salutiamo definitivamente i personaggi delle prime due stagioni ed entriamo dentro un racconto che si discosta completamente dal primo.
Skins decide di dare sempre una luce diversa alle generazioni, e per questo motivo oltre ai personaggi il cambiamento avviene anche nella regia. Ogni generazione, infatti, ha alla base una regia diversa che dà un nuovo contributo alla serie. Il filo conduttore tra la prima e la seconda generazione esiste ed è Effy, la sorella di Tony: spesso sarà lei a portarci ancora dentro le prime due stagioni grazie ai ricordi e ai traumi vissuti.
In un certo senso, così, ci discostiamo totalmente dalla prima parte di storia ma sentendoci parte di un unico universo dove chi c’era prima esiste ancora.
Come anticipato, la regia cambia e le storie si affrontano in modo diverso. Lo Skins che abbiamo di fronte è un vero e proprio racconto drammatico che sceglie di non porsi nessun limite. Gli adolescenti che abbiamo di fronte – in particolare Effy e Cook – non conoscono la redenzione. Hanno paura della vita reale e vogliono concedersi solo alla gioia surreale e finta che la droga gli dona.
La seconda generazione, così, si impone in modo drammatico costruendosi un’identità ben definita che si allontana dalla prima narrazione.
Le storie che vengono raccontate sono tragiche, spesso surreali e oltre ogni limite. Le due stagioni a essa dedicate vengono nell’effettivo rette da tre personaggi: Effy, Cook e Freddie. Sono loro i reali protagonisti, ed è questo particolare che inizia a lanciare il primo allarme di possibile disintegrazione in Skins.
Da sempre la serie è stata trattata come un prodotto corale che lascia il giusto spazio a tutti permettendo di costruire un’identità forte a ogni personaggio. Nella seconda generazione questo aspetto viene quasi dimenticato: nonostante gli episodi dedicati ai vari personaggi, tutto fluisce verso l’unico obiettivo di puntare la luce su Effy , sulla sua perdizione nelle droghe e sui suoi drammi in cui immerge anche l’uragano Cook e l’angelo Freddie.
Lo vediamo anche in questa immagine: prima di tutto ci sono i tre ragazzi, e poi tutto il resto.
Ed è così che Skins inizia a perdere il suo punto di riferimento: le storie umane di un gruppo di ragazzi. Si discosta dalla sua vera forza e diventa a tutti gli effetti una storia che si concentra sui drammi di una persona in particolare lasciando andare tutta la naturalezza tipica della serie.
La regia cambia completamente i suoi toni e tutto quello a cui siamo abituati si annienta vertiginosamente lasciandoci in mano dei drammi reali ma fuori dal comune che raccontano la vita di chi a soli sedici anni non conosce regole e non si pone il problema di rispettare almeno se stesso. La maggior parte degli adolescenti della serie vive già da sola o non conosce un posto da chiamare casa. Vivono alla giornata e si dimenticano come fare a condurre un’esistenza non distruttiva.
Ma nonostante tutto questo, Skins è ancora Skins. L’elemento anziano del gruppo – Effy – riesce a mantenere viva la storia. Ha qualcosa da dire, un dramma da risolvere. Ci ancoriamo a lei e riusciamo a trovare un motivo per continuare la storia. Non è molto, non è neanche lontanamente vicino all’atmosfera che abbiamo conosciuto della serie, ma ci basta e ci dà una ragione per andare avanti.
Il punto di non ritorno, però, è un nemico che nelle Serie Tv si insidia come un parassita. Gli risucchia la linfa vitale e le annienta con la stessa arma che hanno utilizzato per diventare grandi. Ed è così che Skins, con la terza generazione, smette di essere Skins.
La terza e la quarta stagione arrivano alla fine. L’epilogo è segnato, e i personaggi sono pronti a far spazio ad altro. Siamo vittime di una seconda generazione tosta, drammatica, estremamente complicata. Ma lo spettacolo deve andare avanti, non è ancora finita.
Entriamo, così, all’interno della vita della terza generazione. Veniamo catapultati nello stesso universo in cui le prime generazioni esistevano, ma non ce ne ricordiamo. Ci sforziamo di tenerlo a mente, ma tutto è così distante. La regia cambia un’altra volta e i personaggi che abbiamo di fronte suonano come degli estranei che non vogliamo conoscere perché non riescono a trasmetterci niente. Sulle prime due generazioni abbiamo fatto di tutto: analisi psicologiche, paragoni. Abbiamo riso, abbiamo soprattutto pianto, ci siamo sentiti coinvolti emotivamente. Tutto questo smette di esistere non appena premiamo il tasto play della terza generazione. Da quel momento Skins sarà solo un ricordo.
La nuova regia sceglie di dar vita a delle storie che possano avvicinarsi di più alla prima generazione. Esiste più equilibrio, meno limiti infranti. Tutto diventa più reale, ma il problema è che non esiste in nessun modo un’identità.
La terza generazione di Skins sceglie di essere più normale. Obiettivo nobile, si, ma normale non significa anonimo. Non ci sono carichi emotivi, non ci sono elementi che riescano a creare la giusta empatia all’interno del telespettatore. Siamo di fronte allo schermo per inerzia, perché speriamo di trovare ancora quel brivido che solo Skins riesce a darci.
Purtroppo però, fin dai primi momenti, capiamo che quel brivido non lo avremo mai più e che l’unica possibilità che abbiamo di rivivere quelle sensazioni è tornare da dove siamo venuti, riavvolgere il nastro e ricominciare da capo la storia.
Nella seconda generazione i personaggi erano estremamente maturi fisicamente. Questa maturità ha dato una chiave diversa alla storia che ha contribuito a rendere la narrazione più realistica in termini di visione: guardare un ragazzo che sembra avere più di vent’anni fare determinate cose non suonerà ridicolo come vederne uno che a malapena ne dimostra quindici. La terza generazione perde qualunque credibilità anche per questo: sembrano dei ragazzini usciti da una Serie Tv disponibile su Disney Channel. Si fanno strada in cliché che mai Skins aveva utilizzato: nessuna ragazza bionda uscita da un episodio di Beverly Hills tormentava la nuova arrivata dai capelli corti e lo stile stravagante. Era proprio questo il bello della serie: non aveva bisogno di cadere nei cliché che da sempre caratterizzano i prodotti adolescenziali.
Ma quando le idee finiscono e la storia inizia a stancarsi l’unico rimedio – se non si sceglie di concludere – è quello di cadere dentro stereotipi che hanno sempre assicurato il successo dei vari show. E così, senza pensarci troppo, Skins cade nel tranello del punto di non ritorno.
Quello che viene fuori con la terza generazione è l’immagine di un prodotto che si sbraccia per non annegare. Lo vediamo mentre cerca di riprendere l’atmosfera della prima generazione: questo risultato inevitabilmente sarà paragonabile a uno scimmiottamento dei primissimi episodi. La prima generazione salva Tony da un incidente mortale e uccide Chris. In questa Grace muore a causa di un incidente, e tutti gli amici da quel momento la immagineranno ancora accanto a loro. Questo tono drammatico che la serie impone non riesce a essere paragonabile alle altre morti a cui abbiamo assistito.
Questo purtroppo accade ogni volta che dimentichi che oltre la macchina da presa ci sono delle persone che hanno bisogno di empatizzare con i personaggi. Dimenticare della nostra necessità di empatia significa rovinare il 98% della serie.
Così la terza generazione di Skins non fa la differenza. Rimane inerme dentro il catalogo delle stagioni comportandosi da intrusa, come qualcosa che non ha nulla a che vedere con la vera essenza della storia.
Chiariamoci: non è un giudizio sull’ipotetica bellezza della terza generazione. Potrebbe anche essere perfetta, ma non è Skins.
Ciò che abbiamo di fronte è un ladro che cerca di arredare una casa che sta occupando abusivamente. Può renderla perfetta, ma non sarà mai davvero casa sua. E proprio con questo spirito la terza generazione sarà sempre il più grande rimpianto di Skins.
Sarà il rimpianto di non essersi fermata quando invece avrebbe dovuto. Il rimpianto di non aver compreso che il punto di non ritorno si stava facendo strada e l’unica che poteva evitarlo era lei. Ha avuto paura di fallire cancellando le successive stagioni, ma se lo avesse fatto adesso il ricordo di lei non sarebbe macchiato, avrebbe solo qualche crepa dovuta a una seconda generazione più individuale e meno corale. Quello a tutti gli effetti fu un segnale d’allarme ben evidente: stava annunciando che l’immaginazione stava finendo, e i contenuti cominciavano a scarseggiare e non perché non ci fossero le condizioni ma perché, di base, quello che dovevano dire lo avevano già detto. Non c’era niente di irrisolto per cui Skins dovesse tornare rovinando la bella esperienza che aveva creato.
La conferma di tutto questo arriva dalla Serie Tv stessa che con la sua settima stagione decide di chiudere il cerchio dei personaggi più importanti delle generazioni.
Cassie, Cook ed Effy sono i protagonisti della settima stagione. Fanno parte della prima e della seconda generazione, non c’è neanche un episodio per qualcuno della terza. Tutti e tre hanno avuto la necessità di chiudere il cerchio della propria vita. Anche se l’ultima stagione ha convinto in pochi, sono comunque tornati a rivestire i panni di tre personaggi che in Skins hanno fatto la differenza e il diritto di chiusura non poteva impedirglielo nessuno.
Nella terza generazione nessuno riesce a permettersi questo lusso perché nessuno fa la differenza. Nessuno sa urlare riuscendo a farsi sentire.
In questa maniera la serie stessa sembra fare un passo indietro e ammettere tutte le colpe. Tacitamente ma con la dimostrazione nei fatti, esclude le ultime due stagioni e lascia che il finale lo diano i personaggi più anziani. Nelle loro mani c’è il saluto definitivo di Skins: una serie che non è riuscita a fermarsi e che vivrà per sempre il rimpianto di non averlo fatto.