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Il Nostro Generale – Siamo stati alla conferenza stampa di presentazione della nuova fiction Rai

Il nostro generale
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C’è tensione ed emozione nella sede Rai di viale Mazzini. Lo si nota dagli sguardi, dalle incertezze al momento di scattare le foto di rito. Dalle parole che si scambiano gli attori e l’ampia crew che ha contribuito alla realizzazione di un progetto ambizioso e pericoloso come Il nostro generale. C’è la collettiva, lucida consapevolezza che parlare di storia, e per di più di una storia non sempre limpida, ma anzi carica di contraddizioni, punti ciechi e -spesso volutamente- distorta, non è impresa facile. Così come non è facile restituire l’immagine di un generale, e prima ancora, di uomo che ha sacrificato la propria vita, la quotidiana intimità della propria storia personale in nome di tutti quegli “onesti” che glie lo hanno, indirettamente, chiesto.

Il nostro generale non è una fiction Rai come un’altra, e lo capiamo fin da subito, anche prima della visione degli episodi.

Lo capiamo da quella tensione fragile che si respira ovunque, dall’emozione e dalle parole sibilline ma a ben vedere fin troppo chiare della caparbia, audace direttrice di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati, quando si domanda retoricamente come mai questo tema, il tema della lotta al terrorismo da parte di un uomo che si è fatto carico della difesa alla democrazia, sia stato per tanto, troppo tempo riposto in un cassetto, tenuto lontano dai palchi della recitazione.

Il nostro generale
Il nucleo speciale antiterrorismo (640×360)

La risposta immediata è perché rischiava di tramutarsi in un “Machiavelli” alla Boris, un’opera colossale che proprio per la sua complessità risulta impossibile da portare a termine. È per questo che dietro la realizzazione di Il nostro generale c’è stato, come conferma la sceneggiatrice Monica Zapelli, un lavoro immane, una minuziosa consultazione di carte processuali, fonti scritte e testimonianze dirette. Sono queste ultime, in particolare, che hanno restituito l’aspetto più intimo e segreto del generale Dalla Chiesa e della sua squadra, di quegli ormai “ex-giovani”, come li definisce un commosso Antonio Folletto, voce narrante e interprete del “primo” dei sottufficiali del Generale. Sono le loro voci, spesso dimenticate dalla storia, che hanno fatto sì che l’ottimo cast si calasse appieno nei difficili ruoli.

L’oralità dei racconti, l’emozione degli sguardi ammirati nel ricordo di quell’uomo che è stato padre per tutti ha rappresentato il viatico migliore per l’immedesimazione.

Il nostro generale non è, perciò, solo impeccabile ricostruzione storica ma anche e soprattutto un percorso di intima memoria, l’occasione per rivivere un passato che non può tornare. Tale è soprattutto per Rita dalla Chiesa che nel corso della conferenza stampa ha sottolineato quanto questa fiction abbia rappresentato per lei un’occasione per riconnettersi al ricordo di quei genitori con cui ha condiviso una vita di reclusione in nome dei doveri di Stato, una vita pesante ma necessaria per “poter guardare in faccia i propri figli”, come ebbe a dire Carlo Alberto dalla Chiesa.

Castellitto
Sergio Castellitto (640×360)

Se le artistiche distorsioni del protagonista e della storia rendono Esterno Notte l’emozione raccolta in un ricordo collettivo per il pubblico ma al contempo insopportabile rimestare per la famiglia Moro, Il nostro generale diventa per Rita e Nando dalla Chiesa commovente ricerca del tempo perduto, di quell’infanzia sparita troppo in fretta e non vissuta a pieno. “Un figlio teme quando si raccontano i proprio cari“, afferma Nando, “Ma io so che non devo temere niente“. Non è cosa scontata, soprattutto quando in scena vanno ricordi intimi e complessi di un uomo che ha “Vissuto tutta la vita in guerra, non ho mai avuto un giorno di pace vera“.

Si fa carico di questa responsabilità un sempre impeccabile, ma stavolta più del solito, Sergio Castellitto, che fonde i suoi ricordi di ragazzo, di giovane studente dell’Accademia salvato dalla lettura di Čhecov, con quelli del racconto di Rita dalla Chiesa. A lei si è affidato l’attore per animare una fiction che, secondo le parole del regista Lucio Pellegrini, vuole essere, anche nelle immagini “Piena di calore“, non soltanto ricordo di eventi ma anche e soprattutto intima riscoperta di un uomo. Carlo Alberto dalla Chiesa ha vissuto a cavallo di tre mondi, quello della seconda guerra mondiale, del primo dopoguerra e degli Anni di Piombo, tutti irrimediabilmente segnati dal conflitto armato.

Lui, che avrebbe voluto essere -ed è stato- uomo di pace ha perciò dovuto rinunciarvi perché quella stessa pace arrivasse a noi.

Dalla Chiesa non ha rinunciato solo a una pace di Stato ma anche e soprattutto alla pace personale, a una vita serena con la propria famiglia, con quella moglie adorata e quei figli che ha visto crescere solo in parte e con troppe privazioni della quotidianità domestica. Il nostro generale restituisce tutto questo, lo fa con un racconto che attinge, secondo le parole di Castellitto, a quel “Serbatoio intimo, psichico” che è la memoria di Rita, Nando e degli “ex-giovani” componenti del nucleo. C’è un realismo profondo che si serve anche di ambientazioni che il regista Pellegrini ricorda essere autentiche, parte dei luoghi che hanno ospitato quelle memorie storiche ancora così limpide nel ricordo dei vivi.

Il nostro generale
Teresa Saponangelo (640×360)

Ed è ancora Rita dalla Chiesa, allora, che si fa portavoce della vivida memoria che torna ad animarsi nella fiction Rai. Lo fa col dolcissimo affetto con cui nomina sua madre, Dora, interpretata da Teresa Saponangelo. Quest’ultima è chiamata alla non facile missione di ricostruire la figura di una donna che, come sussurra dolcemente Rita mentre l’attrice descrive la sua interpretazione, è sempre stata “al fianco“, mai dietro il grande uomo. Con delicatezza ma anche incredibile forza scenica Saponangelo riesce a restituire centralità a un personaggio che rischiava di essere schiacciato dalla preponderante personalità del generale e di Castellitto dietro di lui. “Non volevo tradirne il ricordo“, confessa, dolce ma risoluta, Saponangelo. Cosa che riesce, per merito suo come di una regia e sceneggiatura che scelgono di sospendere la grande storia per guardare alla quotidianità, a quella realtà di una donna che fa da collante familiare, da interprete e guida emozionale di un’intera famiglia.

C’è un flusso emotivo, percettibile, incontrollabile che scorre in questa conferenza stampa, che va da Nando e Rita dalla Chiesa, fino a Castellitto e a tutti gli interpreti.

Un transfert che ha portato il ricordo personale a rivivere nella voce, nei gesti, nelle scenografie di estranei, che ora estranei non sono più. “Ho nostalgia di questo progetto”, si lascia sfuggire l’attore protagonista, segno che “il generale” non lo ha ancora abbandonato, vive e si agita ancora in lui. Lui che si è fatto carne viva di un ricordo e che per tutti i presenti in sala diventa, con un epiteto formulare, immancabilmente e per nulla ironicamente “il generale Castellitto”.

Il nostro generale
Il nucleo antiterrorismo nella fiction Rai (640×360)

Nella conclusione di quel capolavoro che è la recherche proustiana emerge prepotente la consapevolezza che il ricordo può rivivere solo se sublimato in arte, solo se consacrato a quelle forme di eternità che permettono a una memoria personale di diventare salvifica memoria collettiva. Ecco, il nostro generale si è proposto questo tremendo compito, quello affidato a ogni opera che assurga a diventare arte: trasformare l’irrimediabile tempo perduto in nuovo presente, a-temporale, universale, eterno. Non è cosa facile. E adesso capiamo un po’ meglio quella palpabile emozione che aveva aperto questa conferenza stampa e che, inevitabilmente, nella commossa speranza di un successo, la chiude.

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