Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 1×1 di In Treatment
Versione italiana dell’omonima serie tv statunitense firmata HBO andata in onda dal 2008 al 2010, nonché rifacimento a sua volta dell’originaria e originale serie tv israeliana BeTipul, In Treatment è stata per molti – ma purtroppo non moltissimi – una carezza pronta ad accoglierci una volta posate le membra sul divano, avvolti nella propria copertina e con le lacrime in tasca. Dopo aver visto qualche puntata in seconda serata su La7 mentre frequentavo ancora le medie, non sono riuscita a trattenere l’entusiasmo quando ho saputo che tutte le tre stagioni della serie tv sono disponibili su NOW. Quello che a quei tempi mi parse un sentore di qualcosa di importante, successivamente prese forma fisicamente davanti ai miei occhi, ora rapiti dallo schermo luminoso di un pc un po’ assonnato, ma non abbastanza dal farmi premere pausa. Le parole sono importanti, urlava Moretti, e definire tale, importante, una serie tv spesso dimenticata, insospettabilmente, non è affatto una scelta avventata come si potrebbe pensare. E non è il troppo entusiasmo per aver ritrovato un tesoro che si credeva perso, e nemmeno la presunzione di voler convincere a tutti i costi, chiunque, a venirgli incontro, perché In Treatment sia chiaro, non è una serie televisiva universale, per quanto tanto desidererei fosse così. E non è nemmeno così perfetta, a dirla proprio tutta. Ma è importante, e lo sottolineo, per il semplice fatto di esistere nella sua troppo italiana versione nostrana.
In Treatment, e il titolo lo suggerisce, ci manda tutti dritti in terapia, ed è questo che a 12 anni, con la tv appena montata in cameretta e assorta in quelle puntate che al tempo mi sembravano infinite, mi diede la spinta di sognare, un giorno, di andarci in terapia. E non era l’idealizzazione di un dolore che si voleva a tutti i costi mostrare, dell’attenzione e di tutte quelle cose che si dicono – spesso sbagliando – sugli adolescenti. Erano le parole. Quel sapiente, misurato uso di parole che per la prima volta mi sembravano complete, che non avevo mai neanche immaginato potessero mai essere più chiare di così nel racconto di quei sentimenti umani così difficili da sciogliere, ma ora così limpidi in quella fotografia ingrigita di una serie tv dei primi anni 2000.
A parlarci è il Dottor Mari, interpretato da un magnifico Sergio Castellitto. 5 sedute settimanali, 5 episodi da circa 25 minuti l’uno in cui si susseguono vari pazienti dalla prima fino alla settima settimana di terapia, poco più di un mese e mezzo per raggiungere uno snodo fondamentale per ognuno dei percorsi dei 5 protagonisti di In Treatment. 4 a dirla tutta, perché l’ultimo episodio settimanale è quello che vede il Dottor Mari stesso ad andare in terapia da una sua collega in quello che nel linguaggio del settore si chiama supervisione. Nella prima stagione incontreremo Sara, Dario, Alice e la coppia in crisi formata da Pietro e Lea. Il primo episodio, il primissimo assaggio del complesso e affascinante mondo di In Treatment si apre con Sara, a cui da il volto Kasia Smutniak, oggi protagonista di Domina. Non il migliore personaggio della stagione – aspettate di conoscere la piccola Alice – ma di certo uno dei più complessi.
Sara è una donna bellissima, fidanzata da qualche anno con Andrea, fa l’infermiera, ed è incastrata in quella che a un primo sguardo potrebbe sembrare una vita senza crepe. Ama il suo lavoro, il suo ragazzo la adora e si strugge d’amore per lei, mentre Sara lo ricambia quanto basta, il giusto per non sentirsi una stronza completa, ma non abbastanza per non fare sopraggiungere nel ragazzo dubbi sul suo reale coinvolgimento nella loro relazione. Il punto però non è questo: Sara si odia. Si detesta, si massacra. Si imbarca in avventure pericolose solo per sentire qualcosa, per sentirsi qualcosa. Quando la conosciamo nella 1×01 di In Treatment apprendiamo che è in terapia con il Dottor Mari già da un anno, ma come sempre ricade negli stessi schemi triti e ritriti di autosabotaggio e vaga autocommiserazione. Si presenta in studio in lacrime, con il trucco colato e un miniabito da serata, è in after dalla sera prima.
«Stanotte ho passato quattro ore seduta qui fuori»
Voleva citofonare per chiedere un maglione, disdire la seduta e poi andarsene, ma alla fine è rimasta lì seduta al freddo ad aspettare. «Non sapevo se ce l’avrei fatta a tornare a casa da Andrea», ammette.
Mari le dà una coperta di lana, gliela poggia delicatamente sulle spalle e Sara se la tira immediatamente dietro a se, avvolgendocisi come un baco da seta, spontanea anche in un gesto così piccolo: si prende la coperta di cui in quel momento sente di avere follemente bisogno, ma di raccontare cosa le è accaduto, cosa l’ha portata a sedersi fuori dallo studio del suo analista dalle 5 alle 9 di mattina, sembra non avere molta urgenza. Nutrita da quel gesto di cura che il dottore ha avuto nei suoi confronti, sembra volere eliminare con un colpo di spugna i dispiacere della sera precedente, è bastato un piccolo contatto per farla sentire accolta: meno infreddolita e meno sola.
Sara racconta, ma lo fa velocemente, come si fa per le odiose incombenze burocratiche: parla in modo sbrigativo, salvo poi soffermarsi sui dettagli più intimi. Ha litigato con Andrea, è uscita di casa e si è fiondata in un bar. Qui ha conosciuto un uomo dall’aspetto curato: indossa una camicia con le iniziali cucite sopra, probabilmente fa il dirigente. I due parlano, flirtano e appena Sara dice di andare in bagno, lui la segue, credendolo un esplicito invito ad appartarsi. Lui vuole fare sesso, lei non tanto, ma sta in silenzio, immobile, mentre lo sconosciuto si slaccia i pantaloni e si infila il preservativo, in un rituale ben rodato costruito in anni di militanza nei bagni sudici dei locali a consumare sesso occasionale. Sara lo ferma, pensa ad Andrea per un attimo e lo ferma, non può continuare, non può farlo. Lo toccherà soltanto, intimata dal suo sguardo serissimo mentre le dice «Che fai, mi lasci così?». E lo farà, estraniandosi dal suo corpo, fingendo di non vivere in quelle membra, ma lo farà pensando a Giovanni Mari, il suo analista. Pensando a quanto apparirebbe stupida ai suoi occhi, o a quanto il racconto di quella intimità avrebbe smosso qualcosa nel dottore. Vuole stupirlo, vuole piacergli, e lo fa con le sole armi che crede di avere e con le quali si è sempre conquistata l’interesse degli uomini: la seduzione.
Quello che inizialmente sembrava il racconto di un tradimento e poi quello di un abuso, viene edulcorato dalle parole di Sara in una sorta di gioco di ruolo che vede come protagonista proprio il suo terapeuta, un uomo che da oltre un anno le dà ascolto, senza chiederle il corpo in cambio. Di tutto ciò noi non vediamo niente. Non vediamo il bagno di quel locale, non vediamo le iniziali ricamate sulla camicia di quello sconosciuto, tutto quello che sappiamo ci viene raccontato da Sara stessa nello studio del dottor Mari, in un monologo in cui campo e controcampo si alternano mostrandoci le reazioni dei due unici protagonisti di questa puntata. Come una piccola mosca posata su una parete della stanza assistiamo alla seduta di Sara, al suo racconto e alle sue complessità, al sopraggiungere di quello che in psicanalisi viene chiamato transfert e alla reazione sempre ben dosata del dottore che però non riesce a non farsi scappare un piccolo sussulto di fronte al racconto di Sara.
Ci saranno altre parole dopo quella porta sbattuta a fine seduta, altri sguardi dentro e fuori il mondo di Sara e degli altri pazienti del dottor Mari, altri nodi ancora da sciogliere, nodi che forse in alcune storie sapranno raccontare anche noi. E sarà specchiandoci nei pazienti di In Treatment o incuriosendoci sui trascorsi dei suoi protagonisti, che 25 minuti di puntata non sembreranno più durare ore, come quando ero bambina io, e quell’importanza sì, ora avrà modo di farsi largo. Parlare di psicoterapia, dei problemi legati alla mente umana non è mai facile, e provarci e farlo bene come lo ha fatto in Treatment, di certo non equivale a una seduta di terapia, ma sdoganare tutti i preconcetti riguardo la salute mentale, e farlo creando anche un piccolo moto di rivoluzione in chi vuole specchiarcisi, questo sì che è importante.