Provate ad immaginare una grossa stanza scura, piena di grovigli e roba accatastata, con tante porte chiuse che portano ad altrettante stanze scure, con altrettante porte da scardinare. Ora provate ad immaginare il chiasso che farebbe la vostra voce, il rimbombo assordante delle vostre grida, dentro quella stanza immensa e sconosciuta. È quello che succede nella nostra testa quando proviamo a guardarci dentro. Quando proviamo a sviscerare in profondità, in quello strato sotterraneo dell’inconscio conscia in cui si ammassano i pensieri più incomprensibili. Ed è il rumore che ci fa sentire In Treatment quando ci accompagna a scoprire i grovigli degli altri.
È una serie tv strana, In Treatment. Insolita e singolare. L’idea venne nel 2005 a Hagai Levi, regista, produttore e sceneggiatore israeliano, che con BeTipul propose per la prima volta questo tipo di format. Ne sono stati fatti poi diversi remake negli anni, di cui la versione americana, quella con Gabriel Byrne nei panni del terapeuta, è la più famosa. Il principio da cui è partito Levi era questo: creare un prodotto che consentisse di abbattere la dimensione dello schermo e che portasse lo spettatore a sedersi direttamente sul divano dell’analista.
La psicoanalisi è un’archeologia dell’anima, diceva Freud. E questa serie vuole intrufolarcisi dentro e scovarne i segreti nascosti.
La struttura di In Treatment è più o meno questa: ogni stagione è composta da trentacinque episodi, che corrispondono alle sedute settimanali dei quattro pazienti. Il quinto paziente è il terapeuta stesso, che alla fine di ogni settimana si accomoda sulla poltrona del suo supervisore per lasciarsi andare e condividere con qualcuno le ansie e lo stress accumulato. Ogni episodio dura poco più di venti minuti e cerca di simulare in maniera piuttosto verosimile una reale seduta dallo psicologo. Se state immaginando una serie tv con tanta azione e intrecci intricati, non siete sulla strada giusta. La sceneggiatura di In Treatment è quanto di più essenziale si possa immaginare: ci sono una poltrona e un divano e due soli personaggi posti l’uno di fronte all’altro. Niente scene di movimento, niente paesaggi, nessun villain né interferenze esterne. Solo due persone che restano tutto il tempo sedute a guardarsi allo specchio e a cercare delle risposte.
In Treatment è un gioiello dimenticato della televisione italiana.
La serie è stata prodotta da Wildside in collaborazione con Sky Cinema e La7 ed è ancora visibile per intero su Sky Box Sets. La regia è stata affidata a Saverio Costanzo e ogni stagione può contare su un cast di attori di primissimo livello: Barbara Bobulova, Adriano Giannini, Kasia Smutniak, Guido Caprino, Licia Maglietta e Irene Casagrande nella prima; Michele Placido, Greta Scarano e Maya Sansa nella seconda; Margherita Buy, Domenico Diele, Giulia Michelini, Brenno Placido e Giovanna Mezzogiorno nella terza. Oltre alla partecipazione straordinaria di attrici come Valeria Golino e Alba Rohrwacher, che hanno interpretato ruoli secondari.
Questo tipo di prodotto televisivo può funzionare solo con ottimi interpreti, per i quali In Treatment è stata appunto una vera e propria sfida. Alcuni attori hanno raccontato di quanto fosse complicato imparare a memoria le battute, che molto spesso finivano per essere un unico interminabile monologo, con poche pause e tanti sbalzi d’umore. Un vero e proprio flusso di coscienza dal quale spuntavano fuori sensazioni nuove e inesplorate.
Guardare In Treatment non equivale ad andare dallo psicologo, sia chiaro. Stiamo parlando sempre di un prodotto televisivo, che deve funzionare sullo schermo, non di scienza e psicoanalisi. Il dottor Mari non è un vero terapeuta e la produzione non mirava a certo a scandagliare con materiale scientifico il mondo dell’analisi. Ma questa serie tv vince ugualmente una sfida importantissima: riportare le parole al centro dell’azione.
Viviamo in un mondo in costante agitazione, un mondo in cui i silenzi ci spaventano e le pause ci irrigidiscono. Abbiamo un bisogno incessante di azione, di movimento, di ritmo. Viviamo nel tumulto e sentiamo la necessità di guardarlo anche sullo schermo. Non sopportiamo le serie lente, dove non succede mai nulla. Vogliamo vedere inseguimenti, battaglie, scazzottate, scene d’amore, personaggi che agiscono e si perdono, sottotrame, intrecci nascosti. E in questo caos che è la vita, un prodotto televisivo come In Treatment è un sussulto sovversivo.
Le parole riacquistano valore al pari dei silenzi. E in questo viaggio negli abissi degli altri riusciamo a trovare anche noi stessi.
In Treatment entra dentro le stanze buie della nostra testa e prova a gettarci un po’ di luce. E riesce a farlo attraverso le storie di persone normalissime che provano a scavarsi dentro. Il remake italiano ricalca abbastanza fedelmente quello americano. Ma se c’è una cosa che tutte le altre versioni non hanno e la nostra sì, è Sergio Castellitto. Non che gli altri analisti non siano all’altezza, per carità. Gabriel Byrne nella versione statunitense sembra uscito direttamente da un saggio di Carl Gustav Jung. Ma Castellitto non è da meno. Con la sua interpretazione del terapeuta Giovanni Mari, riesce a entrarti direttamente nella testa. Le espressioni facciali, i silenzi che sa far parlare in maniera magistrale, le pause tra una battuta e l’altra, le nevrosi di un personaggio altrettanto complesso che riesce a rendere senza troppi fronzoli e con assoluta naturalezza, ci danno un’idea dello spessore di un attore come Castellitto. Che riesce ad impressionare e cesellare emozioni persino standosene tutto il tempo seduto su una poltrona.
Tanto che Hagai Levi ha definito la versione italiana di In Treatment “un capolavoro, l’adattamento più importante mai fatto della mia serie.”