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Che rimpianto, Inside Man

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Inside Man, miniserie di soli 4 episodi su Netflix (la trovi ancora qui in streaming). Cast solido e appetibile. Stanley Tucci che interpreta Jefferson Grief, un criminologo in attesa della sua esecuzione. David Tennant (qui 10 curiosità sullo straordinario attore) veste il clergyman di un vicario che si trova in una situazione surreale e Lydia West è una giornalista rampante di cronaca nera. Anche l’incipit prometteva una storia fuori dalle righe e intrigante. Tutto questo cappello fa da introduzione a un inevitabile “eppure”. Eppure qualcosa non ha funzionato.

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Stanley Tucci in Inside Man

Dentro Inside Man

“Il carattere determina il destino dell’uomo”, così affermava a ragione Eraclito. Per i film e le serie televisive (con le dovute eccezioni, come sempre in campo artistico), il carattere è la sceneggiatura. Un condannato a morte sui generis, di mestiere fa il criminologo, gioca in casa. Persona di cultura, gentile, carismatico, tendente all’introversione. Personaggio perfetto per essere protagonista di un mistery drama. Stanley Tucci carica di sfumature Jefferson Grief e siamo già più che ben predisposti a seguire le 4 puntate con queste premesse.

L’aspettativa positiva si anima e aumenta ammirando la scelta del comprimario Dillon Kempton (Atkins Estimond), il serial killer della cella accanto (qui le 7 serie true crime più disturbanti degli ultimi anni) che funge da memoria vivente e si assume in pratica il ruolo di “segretario particolare” di Jefferson Grief. La simpatia del personaggio non ci fa pensare neanche un attimo agli efferati delitti per cui sia stato condannato a morte. Al di fuori della prigione, al di là dell’oceano, nella vecchia Inghilterra, c’è il Vicario “sexy”, come lo chiamano alcune parrocchiane, Harry Watling nella persona di David Tennant che è una garanzia per tutte le parti che interpreta.

Un prete moderno, aperto al dialogo, simpaticamente bello con una famiglia meno attraente di lui come atteggiamenti e modi di fare, la moglie accentratrice, il figlio un pò ameba. La giornalista Beth Davenport (Lydia West) che sarà il trait d’union tra il braccio della morte e la tragedia che si farà largo nel, fino ad allora, quieto villaggio inglese. Sarà lei a volare fino in America per incontrare Jefferson Grief e capire che fine ha fatto la sua amica Janice Fife (Dolly Wells). Fin qui tutto bene. E poi?

E poi, l’improbabile

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David Tennant in una scena di Inside Man

Come il vino rosso servito freddo da frigo, gli spaghetti acquosi e le vongole che seminano renella come se non ci fosse un domani, la carbonara con l’uovo indeciso tra essere una futura frittata o il ricordo strapazzato di una colazione. Nel ristorante pluristellato Netflix che ci ha abituati a thriller psicologici di alta levatura non ci aspettiamo questo genere di improbabile. La creatività non ha regole ma ci sono delle necessità che non si possono ignorare.

Se si vuole giocare sull’improbabile si deve fare in modo che sia plausibile, costruire dei personaggi che siano aderenti a quanto accade, una storia che abbia una sacca di accoglienza per azioni che possono sembrare distorte. In Inside Man non è stato fatto, inspiegabilmente, questo tipo di lavoro. Scattano invece una serie di azioni scellerate che partono dal Vicario per poi propagarsi a tutta la famiglia. Sembra quasi di essere in un film di fantascienza di serie B dove piano, piano, tutti vengono posseduti dall’alieno che li trasforma in mostri.

Un effetto domino che si trascina in un crescendo che sconfina nello splatter.

Come spettatori restiamo a guardare increduli, mantenendo nel profondo la segreta speranza che alla fine ci sarà il colpo geniale di sceneggiatura che ci spingerà a trovare ogni possibile appiglio per parlarne nei giorni a venire. Ogni volta che vediamo un thriller, un crime speriamo sempre nell’effetto Kaiser Soze de I soliti sospetti (qui un’analisi sul perchè una Serie Tv su I Soliti Sospetti è quello di cui avremmo bisogno), questo certo non aiuta, ma poi sappiamo che dobbiamo mirare più in basso. Con Inside Man purtroppo il basso è nella cantina dove iniziano i prodromi della catarsi (sciaguratamente inverosimile) finale. Resta il rimpianto di un’occasione perduta, la delusione di vedere tanti ingredienti di qualità non amalgamati, scomposti. Resta l’amaro in bocca e una battuta che il vicario dice di se stesso “I’m the fucking vicar”. Ancora non sapeva che l’improbabile lo avrebbe travolto.