“Tutti sono assassini. Bastano una buona ragione e una brutta giornata”.
Inside Man
Inside Man, miniserie arrivata in sordina su Netflix nel novembre del 2022 e ideata da Steven Moffat (autore di Sherlock) è una commedia tipicamente inglese macchiata dai toni nerissimi del thriller o, se preferite, un thriller “sporcato” dai toni nerissimi dell’humor inglese.
Dopo il flop di Dracula, sempre prodotto per Netflix, Moffat è tornato a divertirsi con Inside Man, una serie che non si fa alcun problema nel prendere in giro lo spettatore, giocando con l’assunto che l’istinto omicida sia profondamente radicato nell’essere umano, al punto da potersi risvegliare anche nella persona più insospettabile come un mansueto prete di campagna.
Ma andiamo con ordine: Inside Man è complicata, molto più di come molte recensioni vogliano bollarla. Si tratta di un esercizio di stile di uno scrittore che, palesemente, prova piacere nel far sentire lo spettatore stupido: già con Sherlock aveva preso in giro le nostre facoltà mentali.
La storia si svolge su un doppio binario: da una parte un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti, dall’altra un sonnacchioso e pacifico villaggio immerso nella campagna inglese. Ed è già interessante notare come, nel rappresentare le diverse ambientazioni, Inside Man proponga, con una punta di ironia, alcuni accorgimenti scenici cinematograficamente associati ad esse: come, ad esempio, i toni caldi della fotografia che ritrae il carcere americano, che restituisce un’impressione assolata e afosa pur svolgendosi prevalentemente in ambienti chiusi, e le ambientazioni da cartolina o da tazza di the griffata UK che caratterizzano il set inglese.
Inside Man (640×321)
Su questi sfondi, radicalmente diversi, si svolge una partita a tennis a distanza tra due attori di carisma innegabile, Stanley Tucci e David Tennant. Il primo è Grieff, uxoricida condannato a morte e rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, che inganna il tempo prima dell’esecuzione risolvendo casi di sparizione. Il secondo è Harry, un prete di campagna e un padre di famiglia impeccabile, finché tutte le sue certezze verranno messe in dubbio quando nella sua vita si affaccerà un terribile dilemma morale.
Un dilemma incarnato dal personaggio interpretato magistralmente da Dolly Wells, Janice, un’insegnante privata che dà ripetizioni al figlio di Harry e che si convince erroneamente che il ragazzo sia un pedofilo. Le scelte che Harry farà per difendere la reputazione del figlio e proteggere la sua famiglia lo porteranno a mettere in discussione la sua morale e trascineranno anche la moglie Mary (una sgomenta ma esilarante Lyndsey Marshal) in una farsesca messa in scena che non porterà a niente di buono.
Quando Janice scompare improvvisamente, rinchiusa impulsivamente da Harry nella sua cantina, a mettersi sulle sue tracce sarà la rampante giornalista Beth (Lydia West), attraversando addirittura un oceano per rivolgersi al re dei casi di scomparsa impossibili, Grieff. Il condannato un po’ la aiuta, un po’ la manipola e la ridicolizza, in una sorta di parodia de Il silenzio degli innocenti, servendosi dell’aiuto del suo vicino di cella Dillon, un serial killer insolitamente gioviale (Atkins Estimond), dotato di una memoria straordinaria e per questo reclutato nel ruolo di segretario e archivio umano.
La storia è un ping pong inarrestabile, nel corso delle quattro puntate che compongono Inside man, tra Grieff e Harry che, pur a distanza e non incontrandosi mai, si fronteggiano e si riflettono l’uno nell’altro. Grieff, pur accettando il proprio lato oscuro, decide comunque di provare a redimersi e fare qualcosa di buono aiutando Beth a risolvere il caso della scomparsa di Janice: ciò non significa che non si bei della sua superiorità intellettuale, in una azzardata satira di Hannibal Lecter che risulta spesso (volutamente) grottesca.
Harry, nella maschera comica e tragica di David Tennant, è un povero diavolo che si ritrova in una situazione più grande di lui e si comporta come un elefante in una gioielleria, cercando goffamente di risolvere le cose ma distruggendo sempre di più a ogni mossa che fa. Ci fa quasi tenerezza, la sua fermezza nel rifiutare quel lato oscuro che si impossessa piano piano di lui, portandolo sul fondo di una spirale di crimini senza uscita.
Una sorta di Mr. Bean del crimine che fa una cosa e ne sbaglia due. Proprio questa è la forza di Inside Man: non prendersi troppo sul serio, pur presentando tematiche e interrogativi morali disarmanti.
Inside Man (640×400)
Tra i due, ma sarebbe più corretto dire al di sopra dei due, il personaggio di Janice, nel doppio ruolo di vittima spaventata e insieme machiavellica manipolatrice, che tenta in tutti i modi di togliersi almeno la soddisfazione di trascinare con lei i suoi aguzzini, avendo realizzato molto presto, grazie alla sua spiccata intelligenza, che non riuscirà a cavarsela.
Un meccanismo narrativo che sbilancia completamente i canonici rapporti di forza tra vittima e sequestratore, mostrandoci come una vittima possa prendere in pugno la situazione e riuscire persino nell’impresa di risultare antipatica allo spettatore, che spesso e volentieri si ritrova a prendere le parti dello sfortunato e pasticcione prete criminale.
Non c’è invece nessun ribaltamento degli equilibri classici nella rappresentazione del rapporto tra Beth e Grieff: si tratta del classico meccanismo, anche piuttosto paternalistico, del maestro con l’allieva un po’ tonta ma animata dalle migliori intenzioni, che viene pazientemente guidata nella soluzione dei casi dall’esperto.
Gli aspetti positivi di Inside Man sono molti: in primis una facilità di visione che rende praticamente impossibile non divorare una dietro l’altra le quattro puntate che compongono la miniserie. Dire che lo spettatore rimane incollato alla sedia (o, più verisimilmente, al divano) per tutta la durata della visione è tutt’altro che un cliché: Moffat sa benissimo come creare picchi strategici di tensione, snodi narrativi coinvolgenti che fanno mettere in pausa tutto per concentrarsi sul rompicapo seriale che è Inside Man.
Un altro pregio di questa serie è la commistione di generi e linguaggi narrativi diversi che spiazza e insieme diverte lo spettatore, che si trova a ridere per situazioni genuinamente divertenti ma sempre con un magone allo stomaco. L’ironia, declinata in maniera personalissima dai protagonisti principali (gigiona e autocompiaciuta nel caso di Stanley Tucci, farsesca e tragicomica nel caso di David Tennant), è un tratto che rende Inside Man diversa dal classico prodotto thriller pensato per il bingewatching.
L’ultimo aspetto, già sottolineato ma mai a sufficienza, è la bravura dei suoi interpreti: non solo i protagonisti Tucci e Tennant, ma soprattutto le comprimarie Wells e Marshal, perfette nel delineare rispettivamente una vittima diabolicamente intelligente e scaltra e una rassicurante mamma chioccia che si ritrova suo malgrado a diventare una (irresistibilmente goffa) sequestratrice.
Inside Man (640×362)
Dal momento che questa è una recensione onesta di Inside Man, tocca approfondire anche alcuni aspetti che, se non sempre negativi, non brillano certo per inventiva. In primis una certa ventata di “semplicioneria” che permea alcuni snodi narrativi cruciali, ad esempio la parentesi che riguarda l’assassinio della moglie di Grieff, per cui l’uomo deve scontare la pena capitale. Un capitolo affrontato e risolto in maniera troppo frettolosa, all’interno di uno snodo di trama orizzontale cruciale che non fa prestare troppa attenzione a questo momento.
Un secondo aspetto è la fretta che si respira verso la fine, nel momento in cui tutto precipita ma è fondamentale, per la narrazione, mantenere la concentrazione alta. E invece, proprio sul finale, Inside Man zoppica leggermente, per la volontà di strafare e perdersi in un’orgia di sangue grottesca quanto inverosimile, con personaggi che si ritrovano (inspiegabilmente) nel posto giusto al momento giusto e altri che si ritrovano nella strada sbagliata nel momento più sbagliato di tutti (e chi l’ha visto, sa di che momento si tratta).
Si tratta di momenti di calo della tensione tipicamente thriller in cui Moffat spinge, per pochi istanti, sull’acceleratore del trash: e Inside Man, in quei momenti, diventa una strana creatura inzaccherata di sangue ma con un sorriso sornione addosso.
Il sorriso sornione di un autore che si diverte a prenderci tutti in giro con questa miniserie, perfetta per chi desidera provare il brivido dell’apnea. Quando si comincia si smette di respirare e si riprende solo quando scorrono i titoli di coda.
Giulia Vanda Zennaro