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Cosa non ha funzionato finora nel remake coreano della Casa di Carta

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Attenzione, il seguente articolo potrebbe contenere spoiler sul remake coreano de La Casa di Carta.

L’ultima parte della Casa di Carta è andata in onda nel dicembre 2021 e chiunque si sia sentito anche solo vagamente malinconico all’idea di dover lasciare andare per sempre i protagonisti delle rapine del secolo, è stato consolato da Netflix abbastanza velocemente. Circa sei mesi dopo, alla fine di giugno, il gigante dello streaming di ha deliziato con un remake e non uno qualunque.

Le premesse, questo va detto, erano promettenti: la rapina si replica in un futuro prossimo, in cui le due Coree sono state unificate in un unico stato con una nuova moneta e di conseguenza una nuova zecca. L’utopia iniziale tende a perdersi durante lo svolgersi delle puntate, ma possiamo tranquillamente dire che tutto quello che differisce dalla storia spagnola costituisce la parte più interessante di questo remake. E le differenze non si limitano al cambio di maschera o alle differenti abitudini alimentari, ma piuttosto alla lampante dimostrazione di come tradizioni, abitudini e politiche passate, abbiano creato cittadini molto diversi, seppure uniti sotto alla stessa bandiera.

Al termine della visione della prima parte però, appare chiaro come questo aspetto, nonostante costituisca una cornice davvero brillante, non sia sufficiente a definire il remake coreano de La Casa di Carta, come una serie del tutto riuscita.

La casa di carta corea

Il primo problema, più che della serie in sé, riguarda la rivedibile scelta di Netflix di cavalcare l’interesse nei confronti dell’estremo oriente e lanciare questa serie a pochi mesi dalla conclusione dell’originale. La Casa di Carta spagnola è stata una serie davvero sulla bocca di tutti: per quanto fosse criticata e osteggiata da una percentuale significativa di utenti, è praticamente impossibile non aver mai sentito nominare Tokyo, Berlino o il Professore. Il loro ricordo è ancora nostalgicamente indelebile nella memoria dei fan e altrettanto indimenticabile in quella dei detrattori. Far uscire un remake a così poca distanza di tempo potrebbe risultare una mossa azzardata, visto l’inevitabile confronto che si genera. Se il ricordo è ancora così vivo, sarà difficile che il remake possa sostituire nella mente degli spettatori l’originale. Soprattutto alla luce del fatto che, al di là delle premesse, le differenze di trama fra le due storie sono inesistenti. Quindi se si ha amato La Casa di Carta, la versione spagnola rimarrà impareggiabile, se si ha odiato La Casa di Carta, la versione coreana, nella migliore delle ipotesi, non sarà poi così interessante, nella peggiore risulterà una copia sbiadita.

Questa vicinanza temporale crea anche un altro problema, la prevedibilità, che è esattamente l’antitesi di ciò che ha fatto funzionare l’originale. In fondo La Casa di Carta spagnola si basa sui colpi di genio del Professore, che come uno scacchista, prevede di almeno tre mosse la polizia. Certo è che, se nella versione coreana la trama non si discosta poi molto, lo spettatore finisce per sapere già cosa stia per succedere sia dentro che fuori dalla Zecca di Stato. Così possiamo salutare la suspense e la sorpresa, oltre che l’aspetto più coinvolgente della serie. Tra l’altro, a differenza della prima parte originaria, composta da 13 episodi, La Casa di Carta coreana condensa questo segmento della vicenda in sei puntate, quindi meno della metà. Per fare questo sono stati effettuati dei tagli notevoli, con il risultato che il complesso e articolato piano del Professore appaia decisamente ridimensionato.

Anche i personaggi in realtà ne escono decisamente ridimensionati e in qualche caso stravolti. Mantenere il nome e qualche vaga caratteristica rende impossibile non paragonarli ed è innegabile che una parte imprescindibile della serie sia l’interesse per le relazioni e la vita privata di ciascun rapinatore, che però in Corea diventa un aspetto della serie più vicino a una parentesi trascurabile. Se per molti non è da annoverare fra i difetti la totale inesistenza della storia fra Rio e Tokyo, dall’altra parte il personaggio di Helsinki risulta praticamente inesistente, non si fanno accenni al figlio di Nairobi (che nella serie spagnola invece costituisce un punto importantissimo nella storyline del personaggio), Tokyo è presente in quanto ex soldato ed esperta di armi, senza alcun sentimentalismo (né nei confronti di Rio, ma nemmeno nei confronti del Professore che nella versione originale ha un legame con la rapinatrice che in più di un’occasione si è rivelato emozionante). Ma forse è il personaggio di Denver quello che ne esce peggio, relegato quasi a una caricatura di se stesso, che se nelle battute iniziali poteva risultare simpatico, finisce per essere più che altro forzato.

la casa di carta corea

La Casa di Carta coreana quindi è più asciutta e un po’ più violenta della versione europea, sia nel piano che nella struttura dei personaggi, a cui lo spettatore fatica ad affezionarsi. Fa eccezione Berlino, lontano dalla figura di ladro-gentiluomo, innamorato (pazzo) di donne, rischio e denaro, la sua controparte orientale è altrettanto squilibrata, ma con un’accezione leggermente più aggressiva e pericolosa che lo rende quasi inquietante. Park Hae Soo ci aggiunge anche qualche battuta inedita e un paio di sorrisetti preoccupanti, per caricare ancora di più la personalità di questo ex prigioniero.

Parlando di personaggi in realtà il remake coreano ha anche avuto qualche buona idea che, se dovesse venire approfondita nelle eventuali successive parti della serie, potrebbero dare qualcosa in più alla storia. In particolare la storia fra il Professore e Seon Woo-jin (diciamo Raquel /Lisbona) diventa un triangolo nient’affatto scontato, considerando che il marito della poliziotta è un importante politico e che il Professore stesso sembra essere stato contattato dal governo coreano per prendere parte a qualche piano di rilevanza internazionale. Ancora una volta sono le differenze dall’originale a rendere interessante il remake, che esclusi questi piccoli exploit, non aggiunge niente alla storia già vista e raccontata.

In fine la grande assente della versione orientale è senza dubbio la Resistenza. Nella rapina spagnola la libertà dall’oppressore, lo spirito di ribellione, quello strano senso di giustizia che rende i rapinatori simpatici alla popolazione spagnola, tanto da fare quasi il tifo per loro, è un cardine fondamentale della storia. Cantano “Bella Ciao” perché si sento dei combattenti, coraggiosi, contro un’istituzione che li ha abbandonati, che li vuole relegare nei gradini più bassi di un’ipotetica piramide sociale. E noi che li guardiamo non vogliamo essere quelli ricchi e potenti, ma piuttosto quelli che con le loro forze, sono capaci di rovesciare un mondo troppo spesso ingiusto e corrotto. Per quanto, nella cultura coreana, la maschera yangban sia la presa in giro per eccellenza del grasso e ricco che vive sulle spalle proletarie del più povero, questo spirito di ribellione e combattività nel remake perde un po’ di colore. Nello svolgersi della serie infatti, questa visione quasi di trincea in cui un pugno di uomini e donne fanno di tutto per colpire un sistema lasciando illesi gli innocenti, si perde per strada. Le disparità sociali sono sicuramente un tema nel cinema e nelle serie tv coreane ed è un peccato che la serie, nella sua stringata versione del piano, non riesca a trasmettere questo intento così peculiare, ma allo stesso tempo così condivisibile.

È ancora troppo presto per decidere se questo remake coreano sia un prodotto che funziona o meno. Se negli episodi futuri dovessero aggiustare qualche prospettiva, probabilmente la Casa de Papel coreana potrebbe regalarci ancora una volta una storia appassionante, che viene da lontano, ma che sentiamo vicina, quasi come se fosse successa a Madrid.

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