Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di La Casa de Papel (versione originale, non quella di Netflix)
1977, Stati Uniti. Gli autori di Happy Days, evidentemente a corto d’idee dopo aver fatto partire un jukebox con la forza del pensiero, fanno fare all’immortale Fonzie una cosa ancora più ridicola. Affrontare uno squalo tigre. Il “nuovo James Dean” (così si intitola la famigerata première della quinta stagione) decide infatti di fare dello sci nautico, con indosso un costume da bagno e la solita giacca di pelle. Obiettivo? Dimostrare il proprio coraggio con una scommessa: saltare sopra lo squalo. Da quel giorno in poi iniziò la deriva di Happy Days (conclusa sei anni dopo) e quella terribile idea entrò a far parte, suo malgrado, del vocabolario delle serie tv. Come ben sapete, il “salto dello squalo” (“jumping the shark”) indica infatti il momento in cui una serie di successo e qualitativamente rilevante forza la mano al punto da rovinarsi. È successo spessissimo, succederà ancora e sono poche le superstiti. Soprattutto tra le più longeve, ma non solo. Si può individuare, per esempio, anche ne La Casa de Papel, formata da una sola stagione.
Partiamo da un presupposto: stiamo parlando di una grande serie con una grande sceneggiatura, i cui punti di forza superano per distacco i limiti. Proprio per questo, alzare l’asticella e abituare fin da subito gli spettatori ad un impalco narrativo di spessore mette in rilievo anche i difetti. È una conseguenza naturale: le aspettative troppo alte sono sempre rischiose, ed è successo così anche con la seconda parte di La Casa de Papel (gli ultimi sei episodi della versione originale, in arrivo su Netflix tra poche settimane). Se si confronta con la prima, il paragone è impietoso: ad esclusione degli ultimi due episodi, che hanno chiuso al meglio il cerchio aperto con il pilot, il calo è stato evidente. Il ritmo forsennato che ci ha portato alla scoperta del ritiro in campagna della banda ha lasciato spazio ad una narrazione più lenta e discontinua, a tratti ridondante.
Al contrario di quel che sostengono molti fan, tuttavia, il vero problema di La Casa de Papel non è il numero di episodi e la durata globale della serie, ma la gestione del racconto. Il rimbalzo continuo tra gli sviluppi della rapina, le indagini di Raquel e, soprattutto, i flashback che hanno illustrato in ogni dettaglio il piano diabolico del Professore e dato un respiro multidimensionale a tutti i personaggi coinvolti (eccezion fatta per l’anonimo Oslo) ha armonizzato i tempi della storia, ma nella seconda parte si è stretto il cerchio oltremisura. La ricerca ad ogni costo di una dimensione adrenalinica ha tolto spazio ai flashback rendendo necessarie, al fine di tenere alta l’attenzione dello spettatore, diverse forzature. A discapito della credibilità complessiva.
È vero: anche la prima parte non è priva di passaggi a vuoto in questo senso (pensate, per esempio, all’assurda cancellazione dell’identikit del Professore, ricostruito dal russo in assenza di una funzione di autosalvataggio e senza che nessuno lo monitorasse), ma il punto più basso si è toccato con la tredicesima puntata. La corsa spericolata in moto di Tokyo che si conclude con l’improbabile rientro alla Zecca spagnola, ovviamente accerchiata da migliaia di poliziotti e militari, è quanto di meno credibile potessero congegnare gli ottimi (a tratti meravigliosi) autori della serie. Una forzatura che ha strappato un sorriso e qualche risata, abbassando di colpo il livello medio del racconto. In quel momento abbiamo visto apparire il famigerato Fonzie che osserva dall’alto lo squalo, facendoci preoccupare per quel che avremmo potuto vedere negli ultimi due episodi. Per fortuna tutto è andato per il meglio: la splendida La Casa de Papel, dopo un avvio straordinario, è arrivata stanca a metà del percorso, salvo poi riprendersi con un finale più che degno. Un sospiro di sollievo, un addio necessario. Al momento giusto, senza ulteriori forzature che avrebbero rovinato una bellissima storia.
Antonio Casu