Prima ancora di Tokyo e Rio, prima dei calici alzati dal Professore e Berlino, prima dell’amore di Raquel, prima di tutto questo c’è stato qualcosa. Qualcosa di incredibilmente toccante e delicato. Ritmato e lirico. C’è stata una sensazione, strana e ingiustificata. Perché non avevamo ancora vissuto quelle storie. Non avevamo fatto nostra Bella Ciao e non ci eravamo commossi in un senso di partecipazione collettiva con i protagonisti de La Casa de Papel.
C’è stato qualcosa che ci ha toccato nel profondo. Qualcosa che ci ha promesso che quella visione, quella storia fatta di furti, irruzioni e barricate sarebbe stata molto di più. Che ci avrebbe restituito un’emozione. Quel qualcosa è My Life Is Going On. La sigla de La Casa de Papel.
Un giro di chitarra elettrica, un riff malinconico.
Viviamo in quel senso di incompiuto. Affondiamo nella nostalgia di una sensazione che non abbiamo vissuto. È come se ci fosse stato qualcosa prima di quel riff, qualcosa che non conosciamo ma che possiamo intuire distintamente. Un tempo in cui tutto era semplice e sereno. Un tempo a cui guardiamo con rimpianto.
Ci scopriamo fragili e meditabondi mentre la dolcezza della voce di Cecilia Krull esordisce con quel “If”. “Se”. Il tempo della possibilità e dell’irrealtà. Perché quel “se”, quella singola, monovocalica congiunzione ci rimanda inevitabilmente al passato e al futuro. Ci parla di un amore trascorso e di un amore possibile. Di una sovrapposizione tra quello che è stato e quello che potrà essere. “Se resto con te”. Se.
Un tempo sarebbe stato scontato. Non ci sarebbe stato quel dubbio, quel condizionale che ora sembra diventato d’obbligo. E noi soffriamo con Cecilia Krull per quel momento in cui lo stare insieme è diventato una faticosa scelta. Scelte, momenti cruciali di un’esistenza che si fonda sul sentimento. Tokyo da quei primi frame de La Casa de Papel, da quei pochi minuti che precedono l’esordio di My Life Is Going On ci ha già restituito qualcosa.
La sua voce narrante si è fusa con quella di Cecilia Krull.
Lo ha fatto nel momento esatto in cui ha deciso di aprirsi con noi e ci ha calato nella sua interiorità. Nella sua sofferenza di donna ferita da un amore perduto. Una sofferenza nascosta sotto l’esteriorità di battagliera criminale. Cecilia e Tokyo, La Casa de Papel e My Life Is Going On. L’andamento cresce, i bassi tambureggiano a ritmo col nostro cuore mentre la voce si carica di combattivo realismo. “Se sbaglio, non mi interessa”. Non mi interessa. Non mi importa andare incontro al fallimento. Perché questo è il tempo del tutto o niente. Dell’all-in col mondo. Tokyo ha perso affetti, valori, sentimenti.
Tutti i drammatici, contraddittori personaggi de La Casa de Papel vivono la disperazione di un ultimo atto. Di un “se” che non ammette altra possibilità. In questa contraddizione, nel mondo di una scelta che appare l’estremo e finale esito della vita si staglia il senso della disperazione di My Life Is Going On. Perché senza quel “se”, senza quell’opportunità, l’esito è già segnato per tutti i protagonisti.
Sono dannati senza nulla da perdere, a cui “non importa nulla”. “Io sono persa”, rivela con dolce disperazione Cecilia Krull. Io sono sola. Ho perso il mio tempo. Tokyo è scordata, è fuori-ritmo, è una reietta. Non ha più un accordo dentro di sé, non riesce più a battere il tempo. Ha bisogno di ricostruire se stessa, di rifondare la sua vita. Ha bisogno di un atto estremo, di un finale grido alla vita. Di un salto nel buio. La vita può “andare avanti” solo così.
Cecilia Krull parla di sé. Parla del suo amore passato, del bisogno di andare avanti, della possibilità che tutto si riavvolga.
Che quel passato così nostalgicamente rievocato possa tornare a vivere nel futuro. Andare avanti per tornare indietro. Qualcosa si è rotto, qualcosa si è infranto dietro una promessa tradita. È successo a Tokyo, a Mosca, al Professore, a tutti i fragili e malinconici compari di una rapina che sa di ultima spiaggia. Vorrebbero tornare indietro. Vorrebbero tornare alla vita. Al momento in cui tutto era ancora possibile e quel “se” aveva un raggio di possibilità più ampio. Ora, di fronte a loro, di fronte all’amarezza per fallimenti, rifiuti, dolori e rimpianti c’è una scelta obbligata.
Nel lirismo così assurdamente melanconico di My Life Is Going On c’è tutto questo. C’è un ideale che sa di vita. C’è la consapevolezza di un errore, di un irripetibile momento di fallimento che sembra aver compromesso tutto. In quel momento, nell’istante in cui l’universo sembra crollare non c’è futuro. Chiudiamo gli occhi quando tutto sembra irrimediabilmente perduto. Siamo pronti per la fine del mondo. Ma non accade nulla. C’è solo silenzio di fronte a noi. Non siamo più, ma esistiamo ancora. Esistiamo ancora.
Sembrava non ci fosse futuro. Ma la vita è andata avanti. Di fronte al dolore, alla perdita, all’errore va avanti. Lo fa contro la nostra stessa volontà. Il mondo non è collassato. È ancora lì, nonostante la nostra vita sembri non avere più senso. E allora nulla ha più importanza, “my life is going on”. Lo fa stancamente e nella disperazione, eppure va avanti. Ma se siamo svuotati di ogni cosa, persi e fuori tempo, che scelta abbiamo? L’unico “se”, l’unica possibilità è fare nostre le parole del professore e trovare senso nella disperazione.
Il grande, finale ideale ne La Casa de Papel sta tutto in questa disperazione e nel nostalgico vuoto di chi ha perso tutto.
Se sentiamo così vicini tutti i protagonisti, se sentiamo così nostra My Life Is Going On è perché anche noi siamo persi. Perché anche noi abbiamo bisogno di quell’atto estremo e finale. Per scoprire se il futuro saprà di passato e se gli errori costruiranno a “new version of myself”.
Abbiamo bisogno di credere. Disperatamente bisogno di credere in qualcosa. Quel qualcosa non è una rapina. Non è un ideale di ribellione. Non tanto questo. È il superamento della solitudine. La scoperta che non siamo soli. Che siamo tutti dannati ma possiamo trovare senso nei rapporti che ci legano. Quello di un padre per un figlio, di un ragazzo per una ragazza, di un fratello per l’altro. Declinazioni diverse di umanità. Sfumature di un unico sentimento chiamato amore.
Ed è a questo punto, di fronte a questa finale e risolutiva consapevolezza, di fronte a quel “se” che diventa tempo della realtà che My Life Is Going On ha bisogno di arricchirsi di qualcosa. Non può esserci più solo la malinconia di chi guarda al passato e immagina il futuro. Serve un nuovo sottofondo, un nuovo grido combattivo. Serve calarsi nella lotta per il nostro ideale. Scoprirsi determinati come mai lo siamo stati, battaglieri e rabbiosi.
E allora al riff delicato e riavvolto della chitarra elettrica ecco sovrapporsi trombe e drum machine, sintetizzatori e batterie elettroniche.
Ecco il remix di Burak Yeter che ci fa ballare come la dance dei migliori anni. E ci ricorda che bisogna agitarsi, muoversi, scuotersi dal torpore. Danzare, lottare, gridare al mondo che “I don’t care at all, lost my time, my life is going on”. È tempo di azione, di lotta armata, di disperata resistenza. È tempo di impugnare le armi. Perché La Casa de Papel è anche urlo di Resistenza, guerra al mondo e alla società. Alle sue perversioni e ipocrisie. Riaffermazione di sé.
Malinconia e rabbia, inerzia e scontro vivo, senso di perdita e possibilità di redenzione. Vita passata e futura, amori perduti e ritrovati. Il tempo del racconto che va avanti, la vita che non si ferma. Alziamo i calici, guardiamoci negli occhi, scopriamoci fratelli e spacchiamo il mondo. Perché “my life is going on” e ora lo sappiamo. Ora lo sappiamo.