C’è un sottotesto interessante, per appassionati e non, che appare sempre più chiaro durante la visione de La Casa di Carta. Una sorta di doppio filo che lega il piano del Professore a quello del suo creatore Álex Pina.
Come in tante opere letterarie, è nelle azioni di un protagonista che riconosciamo le intenzioni del suo autore. A differenza però del Mother! di Aronofsky, tanto per citare uno degli esempi più recenti, non è strettamente necessario cogliere entrambi i livelli di lettura per godere appieno dell’opera in sé. Ne La Casa di Carta sono gli eventi narrati a essere in primo piano. Tuttavia, come detto, il metatesto di cui stiamo parlando risiede nel piano del Professore. Nella sua volontà di organizzare la rapina del secolo alla Zecca di Stato possiamo leggere tra le righe quella di uno showrunner deciso a creare l’heist movie (“il film di rapina” ndr) definitivo, ma in forma seriale.
È evidente che Pina sia un cinefilo incallito, tanto da comunicarcelo più volte per bocca dei personaggi.
Il suo “piano”, studiato nei minimi dettagli al pari del suo alter ego, consisteva presumibilmente nel compendiare nel proprio prodotto i maggiori successi del cinema e delle Serie crime, alleggerendone i toni e puntando tutto su una maggiore fluidità della narrazione. La formula si è rivelata vincente, a livello internazionale, grazie all’intervento di Netflix.
La piattaforma di Reed Hastings è ormai maestra nel cogliere il potenziale di Serie passate quasi inosservate in patria. Ha intuito quanto La Casa di Carta sarebbe potuta diventare l’evento televisivo del momento, con il giusto restyling e la solita attenta e scrupolosa campagna di marketing. Così è stato, grazie anche alla giusta mossa di aver rimontato lo show in modo tale da snellirlo e renderlo più appetibile agli abbonati.
Dai 15 episodi da 70 minuti trasmessi da Antenna 3, si è passati alla Netflix Cut dei 22 dalla durata più canonica di 40-50 minuti.
Non è un caso che in Spagna, prima che la grande N acquisisse i diritti e vi mettesse mano, gli ascolti della Serie non fossero poi così entusiasmanti.
La Casa di Carta non è propriamente il prototipo di spettacolo da prima serata televisiva, e noi in Italia dovremmo saperlo bene. Non è una novità che il pubblico televisivo generalista prediliga prodotti più convenzionali e rassicuranti come Don Matteo, (con riferimento al mercato di casa nostra) o come Il Segreto o Una vita (per quanto riguarda quello iberico, entrambi prodotti da Antenna 3 tra l’altro).
In tutto ciò, va detto, non c’è nulla di male. Non c’è né da inorridire né da gridare allo scandalo, è semplicemente un discorso di target di pubblico. Ogni rete ha il suo, e va riconosciuto il giusto merito a Netflix per aver capito in anticipo che su La Casa di Carta si sarebbe potuto investire e scommettere sul suo successo. Proprio perchè è una Serie adatta al palato dei propri utenti.
Il potenziale dello show era facilmente intuibile. La Casa di Carta è una Serie confezionata per essere appetibile ai più e che non si vergogna di questo. Una Serie che sa di essere figa e che, anzi, vuole far di tutto per esserlo.
Di elementi per alimentare il culto ce ne sono a bizzeffe. La scelta della maschera di Dalì non può che richiamare la fortunata intuizione di V per Vendetta che fece spopolare in tutto il mondo l’ormai arcinoto simulacro di Guy Fawkes. Mossa tra l’altro già ripresa con successo da Mr. Robot e le sue maschere della FSociety.
Il look dei rapinatori, rosso fuoco con cappuccio che ricorda quello della banda di assassini de I fiumi di porpora (e un po’ più prosaicamente gli amati corrieri di Bartolini) è di fortissimo impatto visivo. Perfetto insomma per gli avatar di qualsivoglia profilo social. L’intento di destare la curiosità degli abbonati, attraverso intelligenti e furbe campagne pubblicitarie sul web, è stato come sempre assolto alla perfezione.
Le influenze e le contaminazioni seriali e cinematografiche sono innumerevoli.
Pina non ha nascosto di essersi ispirato prima di tutto a Breaking Bad, omaggiando la creatura di Vince Gilligan con una citazione già nell’episodio pilota.
Non solo Walter White però; la La Casa di Carta è una vera e propria macedonia di omaggi e rielaborazioni. Se nel campo della serialità i paragoni con Prison Break vengono da sé, la fonte di ispirazione più saccheggiata è senza dubbio la filmografia di Quentin Tarantino. I riferimenti non si contano e vengono sottolineati chiaramente (“Non siamo in un film di Tarantino” dirà Nairobi).
Si passa dal taglio di capelli alla Mia Wallace di Tokyo (con un pizzico di Besson e della sua Nikita nonché della Natalie Portman di Léon) ai nomi di città dei rapinatori in pieno stile Le Iene. Di Mexican standoff, ossia gli stalli alla messicana tanto cari al regista di Pulp Fiction, ce n’è più che in abbondanza.
Come detto in apertura, non aspettatevi certo dialoghi ricercati e raffinati al pari del cinema del Maestro. Siate piuttosto preparati a un voice over a tratti ridondante e alle più improbabili liaison amorose. Tutto è insomma estremamente semplificato per lasciare spazio all’azione e ai continui cliffhanger di ogni puntata. Numerosi, va detto, anche a causa del ri-montaggio targato Netflix.
Più la Serie va avanti, più sarà richiesto allo spettatore un alto tasso di sospensione dell’incredulità, per godersi a pieno lo spettacolo senza porsi troppe domande. Il divertimento, magari mettendo da parte la logica, non verrà certo a mancare.
La diffrenza più rilevante tra la La Casa di Carta e gli heist movie più noti risiede nelle motivazioni della banda del Professore.
I rapinatori, inizialmente presentati come sporchi e cattivi, in realtà sono tutti estremamente umani e clementi con ostaggi e polizia. Talvolta fin troppo. Non sono certo arguti e sofisticati come gli undici della saga di Ocean, ma la Serie ci invita esplicitamente a fare il tifo per loro. A differenza dell’Inside Man di Spike Lee, dell‘Heat di Michael Mann, e perché no?, anche del recentissimo Nella tana dei lupi, i protagonisti de La Casa de Papel rappresentano i buoni ma vinti dalla vita che vogliono arricchirsi per avere una rivalsa sociale in nome di un idealismo ben marcato.
Per quanto deprecabile sia l’idea in sé di una qualsivoglia rapina, lo show parteggia per i più deboli, abusando anche della più classica delle metafore calcistiche. Il voler ergere i personaggi a paladini della Resistenza e dell’anti-establishment è stato sbandierato in più di un’occasione anche dallo stesso Pina, dimostratosi attento e conscio dell’attuale contesto politico internazionale. È una scelta eticamente discutibile, ma non si può negare che abbia pagato.
Alla luce di questo scenario, il ruolo del cattivo, o più propriamente del “guastafeste”, viene riservato inevitabilmente alla povera ispettrice Murillo.
A lei l’arduo compito di sostenere la proibitiva partita a scacchi con il Professore. Una sfida di intelligenza impervia, dato che suo malgrado sarà vittima inconsapevole del sapiente e accattivante trucco di sceneggiatura già noto ai fan di Sherlock. Ogni colpo di scena cioè avrà quasi sempre un contro-colpo di scena, perché il Prof aveva previsto tutto.
Ogni mossa dell’avversario prevede una contro mossa, ogni scacco al Re è stato indotto per mangiare una pedina. Il capo della banda li guida dall’esterno come il Micro di The Punisher, nel ruolo de L’uomo sulla sedia esplicitata da Spiderman Homecoming. Grazie a un ottimo montaggio, abbiamo la possibilità di seguire in tempo reale con la rapina le sue precedenti lezioni. La sua onniscenza a tratti sfocia nella chiaroveggenza (discreto limite proprio della quarta stagione del Cumberbatch show), ma come sappiamo l’intelligenza è sexy, sia per gli spettatori che per più di un personaggio.
La Murillo, dal canto suo, è osso durissimo. Incarna perfettamente il ruolo femminile visto più e più volte al cinema e in TV in questi ultimi anni. Il poliziotto cioè dal passato tormentato e dalla vita privata a pezzi, ma che nonostante tutto si piega ma non si spezza. Quando decide di legarsi i capelli, anche un genio come il Professore rischia di passare un brutto quarto d’ora.
Insomma, La Casa di Carta è tutto questo: un prodotto imperfetto, a tratti ruffiano e assurdo, ma indiscutibilmente magnetico che ha tutto per non passare inosservato.
Potrà piacere o non piacere a chi ancora deve vederlo, mentre c’è già chi ne tesse le lodi e chi di contro grida ai quattro venti il proprio disprezzo. È una Serie destinata a dividere, non c’è dubbio. Un rischio sicuramente calcolato nel piano per il successo di quel furbacchione di Álex Pina, andato perfettamente a segno.