La serie evento targata Netflix, tra le più viste a livello mondiale secondo i dati forniti dalla piattaforma stessa, è uscita il 15 febbraio scorso riscuotendo da subito un grande successo, in particolar modo tra il pubblico giovanile e quello amante del genere crime. Col passare dei giorni, però, anche grazie al tam tam martellante sui social, la classica spaccatura tra chi grida al capolavoro e chi invece la critica apertamente è andata via via allargandosi. Apparentemente nulla di nuovo, capita praticamente sempre sotto gli articoli che vengono pubblicati da Hall of Series. Ma nel caso de La legge di Lidia Poët l’impressione è che ci sia qualcosa di diverso rispetto al solito perché le reazioni anziché diminuire col tempo, come normalmente accade, accrescono giorno dopo giorno distanziando sempre di più le due parti.
Al di là del gusto personale dei telespettatori, più che legittimo anche se basato, per lo più, sulle sensazioni sulle quali potremmo aprire un capitolo a parte, cos’è esattamente che sta dividendo l’opinione pubblica? Cos’è che infiamma le discussioni sotto i post dedicati alla serie ideata e scritta dal tandem composto da Guido Luculano e Davide Orsini? Per quale motivo si scaldano gli animi sulla Lidia Poët interpretata da una briosa Matilda De Angelis?
Da quel che si legge la cosa che disturba di più la community di divoratori di serie televisive è, probabilmente, proprio il personaggio principale e il suo esser stato scritto in maniera troppo moderna rispetto all’ambientazione, fine ottocentesca. Così, al pubblico non è piaciuto il fatto che dica le parolacce (anche se farle pronunciare pu***n, in francese, è una finezza non da poco considerata la sua provenienza dalle valli montane piemontesi dove il francese, all’epoca, era di casa. E a questo proposito: si pronuncia Poét, proprio perché francese, e non Pòet); non è piaciuto il fatto che fosse sessualmente troppo attiva; non è piaciuto che beva superalcolici come fossero acqua fresca; non è piaciuto il fatto che fosse troppo poco sottomessa o troppo poco emancipata a seconda dei casi.
Insomma, al personaggio interpretato dall’attrice emiliana viene mossa l’accusa di esser troppo poco legato al suo tempo e per questo poco verosimile. Viene meno, in pratica, la sospensione dell’incredulità che permette di accettare tutto quello che si vede in scena. Un problema non da poco, considerato che Lidia Poët è realmente esistita.
Ispirata alla vera storia della prima avvocata italiana. Così si legge nella presentazione dell’opera su Netflix. I puristi, quelli cioè che stanno criticando lo show italiano perché troppo moderno, si aggrappano a queste parole per difendere le loro idee: questa Lidia Poët non va bene, le donne alla fine dell’Ottocento non erano così. E poco importa quale sia la volontà degli sceneggiatori e dell’attrice che hanno creato volutamente un personaggio lontano dalla sua realtà. Ma allora perché utilizzare un personaggio realmente esistito e non crearne uno ex novo? È un po’ la domanda che si sono posti in tanti, in particolar modo una minuscola fetta di italiani che riponevano ne La legge di Lidia Poët molta speranza: i valdesi, quelli probabilmente più delusi dalla serie.
Lidia Poët, quella vera, nasce nel 1855 a Traverse, frazione di un piccolo comune, Perrero, nella Valle Germanasca, in provincia di Torino. La Valle Germanasca insieme alla Val Chisone e la Val Pellice, con le rispettive diramazioni, formano le cosiddette Valli Valdesi, luoghi nei quali si concentrano la metà dei valdesi presenti in Italia (circa 12mila persone) e che rappresentano il nucleo più antico della comunità appartenente alla Chiesa Valdese, chiesa che aderì alla Riforma Protestante nel 1532.
Le Valli sono state testimoni di una storia, quella dei valdesi, epica. Una vicenda che parte da Valdo, mercante lionese che nel 1100 abbandona i suoi beni per vivere in povertà seguendo la Parola scritta nel Vangelo, e arriva ai giorni nostri attraverso secoli di repressioni, persecuzioni e massacri feroci subiti. Una storia di coerenza, di coscienza e di libertà, di lotta contro l’oppressore e di emancipazione. Gesta che sono ben rappresentate dalla vita della vera Lidia Poët.
La Chiesa Valdese non ha espresso un giudizio sulla serie italiana, ma molti suoi membri sì. Chi sulla propria pagina social chi attraverso Riforma, quotidiano online delle chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia. Giudizi negativi, ovviamente, manifestati più o meno apertamente. Ma soprattutto una grande, grandissima delusione riassunta in un’unica domanda: perché non è stata raccontata la vera storia di Lidia Poët? Domanda alla quale soltanto gli autori potrebbero dare una risposta.
Anche noi di Hall of Series ci siamo posti delle domande su La legge di Lidia Poët. Domande su chi fosse realmente questo personaggio così importante che, oggi, è sulla bocca di tutti ma che fino a qualche settimana fa in pochi conoscevano. Domande che partono dalla serie per arrivare a delineare il profilo e la vera storia dell’avvocata, morta pochi anni dopo la fine della II Guerra Mondiale. Perché non basta scrivere “ispirata alla vera storia della prima avvocata italiana” su una pagina web. Occorre anche dare delle risposte. Soprattutto se queste delineano una storia che avrebbe, di fatto, arricchito la trama di questa prima stagione.
Per avere delle risposte ci siamo rivolti a Clara Bounous, storica, studiosa e scrittrice, tra le prime a occuparsi di Lidia Poët e autrice di due importanti libri sulla sua figura: “La toga negata” (1997) e “Lidia Poët. Una donna moderna. Dalla toga negata al cammino femminile nelle professioni giuridiche” (2022).
La signora Bounous, gentilissima nell’offrirci tutta la sua conoscenza, parte da un presupposto chiaro: “La vicenda di Lidia Poët è legata, in maniera indissolubile, alla storia dei valdesi“, i quali, rinchiusi nelle tre Valli, dovettero lottare per sopravvivere ed essere riconosciuti dal resto dell’Italia. Non certo dall’Europa che, invece, si adoperò fornendo aiuti concreti che permisero loro di avere duecento scuole elementari con la quali ottenere un tasso di alfabetizzazione, agli inizi del Novecento, pari a quasi il cento per cento contro il quasi cinquanta per cento del resto d’Italia.
La vera Lidia Poët “non ha mai avuto problemi di soldi perché proveniva da una famiglia agiata. Il padre era stato per molti anni sindaco di Traverse e la famiglia godeva di una certa importanza. Tra i famigliari, due genitori e dieci figli, i rapporti erano molto cordiali e non certo burrascosi come si vede e si intuisce nella serie“.
A proposito dei rapporti col fratello, titolare dello studio legale a Pinerolo e non a Torino come si vede nella serie, Clara Bounous è molto chiara: “Lidia era rimasta orfana a diciassette anni. Furono la madre e il fratello, che l’accompagnò all’università il suo primo giorno di lezione, a credere in lei, a sostenerla nella prosecuzione degli studi tanto che la dedica sulla tesi di laurea recita così: a mia madre e a mio fratello che con la parola e con l’esempio mi furono guida e sostegno“. Tesi per altro dedicata al tema della partecipazione femminile alla vita pubblica, con particolare attenzione alla questione del diritto di voto.
Bounous, che ha visto la serie e condivide pienamente le critiche sollevate dalla comunità valdese, ha però evidenziato certi aspetti interessanti che vanno al di là del semplice giudizio personale. Alcuni veritieri come il carattere del personaggio interpretato da Matilda De Angelis: “Lidia aveva un temperamento forte, deciso. Il suo anticonformismo e la sua modernità sarebbero incredibilmente validi ancora oggi. Fin da ragazza si era prefissata degli obiettivi e li ha raggiunti, passo dopo passo, senza mai farsi abbattere dagli eventi contrari. Non ha mai rinunciato, perché donna, a percorrere settori come quello giuridico prettamente maschili“.
Altri reali ma trattati con troppa disinvoltura: “Dal punto di vista prettamente giurisprudenziale la serie offre troppe poche informazioni sulla formazione scolastica di Lidia. Sono passati solo vent’anni dall’Unità d’Italia ed è soltanto dal 1876 che le donne possono iscriversi all’università. Lidia si iscrive nel 1878 e si laurea in tre anni anziché quattro, nel 1881, perché dedita soltanto allo studio, giorno e notte. Secondo la legge vigente dal 1874 Lidia ha tutti i requisiti per essere iscritta all’albo degli avvocati, cosa che avviene nell’agosto del 1883. Nel novembre dello stesso anno la Corte d’Appello accettò il ricorso della Procura Reale e Lidia venne radiata. Radiazione che venne confermata l’anno successivo“.
Una parte che sarebbe stata sicuramente interessante affrontare ma che viene trattata soltanto en passant e in maniera non appropriata, con il fratello che deve corrompere il cancelliere facendo leva sul cameratismo maschile nei confronti delle donne troppo moderne.
Con la preclusione all’attività forense Lidia si trasferisce a Pinerolo e lavora nello studio del fratello come sua aiutante. Nel corso degli anni però la sua vera attività è quella di combattente per dare voce a chi non ne ha: donne, minori e carcerati. Anche questa vocazione, secondo Bounous, ha a che fare con l’essere valdese: “quando Lidia morì, nel 1949, i funerali si svolsero nella chiesa valdese di Pinerolo dov’era sempre stata iscritta. Sulla sua lapide venne inciso un versetto tratto dalla prima lettera ai Corinzi: «queste tre cose durano: fede speranza e carità. Ma la più grande è la carità». Ed è proprio da questa idea di carità, tipica di un’educazione religiosa di stampo protestante valdese, che nasce la sua instancabile necessità di appoggio ai deboli. Una necessità che la portò a essere volontaria nella Croce Rossa durante la I Guerra Mondiale, per esempio. O presidentessa del Comitato Pro Voto per le donne, a Torino. Lidia, però, si occupò soprattutto della condizione dei carcerati. Fu rappresentante italiana agli importanti congressi internazionali come quello di Parigi e San Pietroburgo e la sua partecipazione e le sue idee furono di stimolo per cambiare il concetto che il carcerato andasse solo punito e non educato. Il concetto di educazione, tra l’altro, è presente già nella sua tesi. Lidia, infatti, sosteneva che le donne del Regno andassero educate attraverso la scuola prima di permettere loro di votare in modo che avessero una loro coscienza politica e non si facessero influenzare dalle figure maschili presenti in famiglia“.
Durante la piacevole chiacchierata con Clara Bounous, viene fuori un ritratto molto interessante di Lidia Poët, una donna che non ha mai avuto rimpianti né ha rinnegato le scelte fatte. Da una porta chiusa, infatti, si è sempre aperto un portone che le ha permesso di diventare una figura epica non soltanto per la comunità valdese o quella forense ma per tutte quelle persone che credono in certi principi e certi valori. Certo, è un personaggio ancora poco conosciuto rispetto ad altri anche se dopo la prima stagione ora tutti ne parlano. Ed è proprio questo il punto sul quale Bounous ci tiene tanto a dire la sua: “Quanto abbiamo visto, al di là del bene e del male, dev’essere un punto di partenza. La figura di Lidia Poët è importante per la cultura del nostro Paese perché racconta la storia di una donna che ha lottato e si è ritagliata uno spazio in una società che l’avrebbe, invece, voluta ai margini. Non sono soltanto i temi che Lidia affronta a essere ancora oggi attuali ma anche la maniera che parte tutta dalla scuola, fondamentale perché l’individuo possa avere coscienza per combattere le ingiustizie“.
Clara Bounous, in conclusione, dopo aver detto più volte che avrebbero potuto creare un personaggio nuovo di zecca, spera che una eventuale seconda stagione possa rendere maggiore giustizia alla vera storia di Lidia Poët, una storia che avrebbe tanto da raccontare e insegnare.
Chissà che gli autori non le diano retta.
Intervista a cura di Gianpaolo Torchio.