Se c’è al mondo una certezza è che quando si tratta di miniserie Netflix non sbaglia quasi mai e “La regina degli scacchi” (il cui titolo originale è The Queen’s Gambit) non fa eccezione.
Basata sull’omonimo romanzo del 1983 di Walter Tevis, “La regina degli scacchi” è la nuova miniserie di Netflix di cui tutti parlano. La piattaforma streaming si è infatti distinta negli ultimi anni per la produzione di miniserie di altissimo livello, molte delle quali basate su storie vere che vengono raccontate con grande sensibilità. Una sensibilità che è presente anche quando le miniserie sono invece adattamenti di romanzi, come in questo caso.
Questa recensione contiene spoiler, per cui avventuratevi a vostro rischio e pericolo.
La regina degli scacchi è lei, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy).
Dopo la tragica morte della madre, Beth viene portata in orfanotrofio, dove un custode perspicace la prende sotto la sua ala e la introduce a quella che sarà la grande passione – e feroce ossessione – della sua vita: il gioco degli scacchi. Insieme a quella per gli scacchi, la permanenza nell’istituto lascerà a Beth un’altra dipendenza, quella per le “pillole verdi”, psicofarmaci che venivano somministrati agli orfani e che diventeranno per la regina degli scacchi indispensabili per pensare lucidamente durante le partite.
Beth Harmon è una giovane stella degli scacchi, il suo è un talento naturale che allena fino allo sfinimento, fino a consumare la sua stessa esistenza. Quel gioco che per lei era un rifugio da bambina, diventa tutta la sua vita una volta che viene adottata e incoraggiata dalla amorevole ma cagionevole madre adottiva Alma (Marielle Heller). La protagonista cresce così passando da una competizione all’altra, girando il mondo, perennemente in bilico tra genio e follia.
Non c’è tregua per Beth, il suo animo irrequieto non riesce a stare fermo, vuole sempre di più e lei è disposta a tutto pur di ottenerlo. Si perde, cerca aiuto, scappa, annega dolore e ricordi nell’alcol, non smette mai di giocare, gioca mentre dorme, mentre mangia, mentre è con gli uomini.
La regina degli scacchi cresce e la sua ambizione cresce con lei, un’ambizione che diventa ossessione e la trascina sull’orlo del baratro, ma Beth è più forte.
La forza della ragazza sta nella tenacia con cui si è aggrappata alla vita e nel supporto incondizionato delle sue famiglie, quella adottiva e quella che si è creata, composta da amici che le gravitano attorno, attratti come calamite dal carisma magnetico della protagonista.
Tra i punti di forza della serie troviamo sicuramente lei, Beth Harmon. Protagonista assoluta e personaggio straordinario, sfuggente e complesso, enigma che lo spettatore riesce a svelare solo con il passare degli episodi. Il talento della sua interprete, Anya Taylor-Joy (che potreste ricordare nei panni dell’odiatissima Gina Gray di Peaky Blinders) è evidente soprattutto nei lunghi e frequenti primi piani di Beth mentre gioca a scacchi, nei quali senza proferire parola l’attrice riesce a rendere perfettamente la battaglia che la protagonista gioca nella sua mente, accentuando tutte le microespressioni che raccontano la storia e i pensieri della ragazza.
“La regina degli scacchi” è tecnicamente un gioiello, complici una fotografia studiata fin nei minimi dettagli e la regia, che riesce a sottolineare i cambiamenti interiori dei personaggi, facendo sembrare l’intera serie come una vero e proprio incontro di scacchi, fatto di mosse brevi e studiate, orchestrate sapientemente per creare la partita perfetta.
Altro punto forte è la caratterizzazione dei personaggi russi e della Russia sovietica in generale: finalmente non macchiette o spie indottrinate, bensì uomini con sentimenti e pensieri propri, non solo nemici per la protagonista, ma soprattutto avversari che la aiutano a crescere e ne riconoscono il talento fuori dall’ordinario.
La regina degli scacchi non ha veri e propri punti deboli, ma la struttura della serie risulta forse un po’ troppo canonica: la protagonista dal passato tragico conosce prima il successo e poi il declino, per ritrovare infine se stessa e la vittoria nell’episodio finale. Questo non è necessariamente un difetto, tuttavia lascia immaginare come sarebbe potuta essere la serie se avesse preso scelte narrative un po’ più coraggiose.
Nel complesso la serie non raggiunge l’Olimpo presente su Netflix (superare prodotti quali Unbelievable, When They See Us o Godless è praticamente impossibile), ma è un prodotto godibile e di qualità, che rapisce lo spettatore in un vortice di sguardi e partite da cui è difficile scappare.