Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Rocky IV e il finale de La Regina degli Scacchi
Se io posso cambiare e voi potete cambiare… tutto il mondo può cambiare!
La Regina degli Scacchi si concludeva così, con un discorso accorato e pieno di buoni sentimenti della campionessa del mondo Beth Harmon. L’americana capace di mettere al tappeto l’invincibile Borgov a casa sua, in una gelida Unione Sovietica scaldata dall’animo di una grande combattente nel bel mezzo della Guerra Fredda. Gli occhi della tigre avevano avuto la meglio su un avversario impossibile, apparentemente invulnerabile. E alla diffidenza iniziale era seguito un atto d’amore tra due mondi distantissimi, uniti dall’amore per gli scacchi.
Ma forse no, quelle parole non sono di Beth Harmon. Questa, forse, non è La Regina degli Scacchi. Ma il Re dei Pugili, Rocky Balboa. E no, l’avversario al tappeto non è il distinto Vasily Borgov: è Ivan Drago. Una macchina da guerra al servizio di un mondo rosso, implacabile e in superficie privo dell’ombra d’un sentimento. Sconfitto dall’underdog che sembrava senza speranza, ritrovato sulla via del trionfo dopo esser stato a un passo dall’oblio. Perché sì, il quarto capitolo di una delle saghe cinematografiche più iconiche di tutti i tempi ha molto da spartire con la miniserie del momento, quella The Queen’s Gambit con cui sembra non aver niente da condividere e con la quale ha invece tanto in comune. Persino troppo per pensare a una semplice casualità.
Perché questa è La Rocky degli Scacchi, in un ring che sembra una scacchiera. In un giorno qualunque di una Guerra Fredda un po’ meno gelida.
Quindi… Let’s play.
Pensateci un attimo, prima di inveire contro l’audacia di un confronto all’apparenza insensato. Da una parte abbiamo un protagonista, l’americano sfavorito da ogni pronostico, in grado di affrontare e sconfiggere nella terra del nemico un avversario che fin lì non aveva mai mostrato la benché minima debolezza. Dopo un incontro leale, appassionato e interminabile, nel quale due mondi finiscono con l’entrare in contrasto arrivando al punto di rottura: un punto d’unione, in uno dei passaggi più critici e complessi del Novecento.
I sovietici, diffidenti, accolgono con distacco lo sfidante del campione di casa: a un certo punto, però, trascinati dal coraggio dell’uomo, iniziano a sostenerlo. Finendo con l’acclamarlo tra lo stupore generale. E lui, Rocky, accoglie l’abbraccio di quella nazione, invitando il mondo a riunirsi.
Un soggetto semplice, oggi improponibile ma ideale per i canoni della cinematografia anni Ottanta, ancora immersa in una Guerra Fredda ormai prossima al disgelo. Un soggetto perfettamente coerente col suo tempo, come è La Regina degli Scacchi nel nostro 2020. Simile nelle dinamiche soprattutto dell’ultimo, straordinario, episodio. Perché molto di quel che abbiamo detto a proposito di Rocky IV si potrebbe replicare per l’atto conclusivo della miniserie Netflix.
Con una differenza, sostanziale e decisiva: nel mondo di Beth Harmon non c’è spazio per eroi e villain, ma solo per antieroi umani e per questo pieni di limiti equivalenti ai punti di forza. Lo è lei, devastata da una vita complessa piena di ostacoli, probabilmente lo è l’enigmatico Borgov, sicuramente lo sono in modo diverso.
Non è quindi azzardato affermare che lo schema narrativo adottato nell’episodio finale de La Regina degli Scacchi sarebbe stato il medesimo impostato da Rocky IV se Rocky IV fosse uscito nel 2020 e non nel 1985. Ed è un po’ la stessa differenza che intercorre tra il Karate Kid del 1984 e la Cobra Kai attualmente in corso, specie nella gestione del dualismo tra Daniel LaRusso e Johnny Lawrence. Ma questa è una storia a parte che affronteremo un’altra volta.
Quel che è certo che La Regina degli Scacchi, il cui ultimo atto è ambientato nel 1969, si approccia al racconto della contrapposizione tra americani e sovietici in modo antitetico rispetto a Rocky IV: non più gli americani belli, buoni e puliti contro i sovietici brutti, sporchi e cattivi. Non più un’Unione Sovietica tetra e funerea, il lato oscuro di un mondo che vivrebbe meglio se fosse a stelle e strisce. Non più l’avversario sleale contro l’americano perfetto e senza macchia. Non più il bianco e nero polarizzante degli anni Ottanta, ma le sfumature grigie di due mondi coinvolti in una guerra con carnefici dai colori contrapposti. Nei quali il bianco col nero sono relegati in un’elegante scacchiera.
Non sorprende quindi assistere all’atteggiamento riservato dai sovietici a Beth, molto diverso dal trattamento destinato inizialmente a Rocky. Seppure in un periodo storico, quello degli anni Sessanta, ben più vulcanico di quello in cui deve ambientarsi il pugile. Non spiazza nemmeno che i moscoviti accolgano la ragazza come gli americani non hanno mai fatto, arrivando addirittura ad adottarla invece di snobbarla. E non stupisce quindi, infine, che alla retorica filo-americana di Rocky Balboa si contrapponga la scelta radicale della regina degli scacchi, decisa nel mandare al diavolo i compatrioti opportunisti, saliti sul carro della vincitrice solo dopo la sconfitta inferta a Borgov, per trovare una nuova casa dall’altra parte del mondo.
E che dire della mossa risolutrice che ha portato al trionfo della ragazza? Una mossa che poco ha a che vedere con gli scacchi, ma si lega essenzialmente alla capacità di fare squadra mostrata dagli americani, storicamente individualisti, nello stesso campo in cui il confronto tra gli scacchisti sovietici è sempre stato costante e costruttivo. Una vittoria americana alla russa, in sostanza. Capace di sovvertire i cliché con brillante originalità e inserirsi a pieno titolo sulla falsariga di Rocky. Al contrario di Rocky, ma con lo stesso vigore adrenalinico di una narrazione sportiva sui generis.
Insomma, chiudete gli occhi e immaginate per un attimo Beth Harmon e Vasily Borgov in un ring con i guantoni addosso in un’arena rumorosissima, mentre Rocky Balboa e Ivan Drago si scontrano in un’elegante sala silenziosissima. Vestiti di tutto punto e contrapposti dentro una scacchiera. Se le daranno di santa ragione, ci regaleranno delle emozioni uniche, ci porteranno a uno stato d’esaltazione inimitabile e parleranno un’unica lingua: non l’inglese, non il russo. Ma il linguaggio universale di una passione condivisa visceralmente, anche sull’orlo di una guerra apocalittica.
Antonio Casu