Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla terza stagione de L’Amica Geniale
Il sogno, a occhi chiusi. La verità taciuta da una vita, le urla, le mani addosso. La colluttazione, il silenzio. Risveglio, interno giorno: occhi aperti, la fabbrica, il rione, il mondo. Le forze centrifughe, quelle centripete: un solo fine dalle soluzioni antitetiche. Verità taciute, per un giorno ancora. Il saluto, la verità svelata a bocca chiusa. L’inseguimento, l’abbraccio finale. L’amicizia e l’invidia. L’amore che si tramuta in odio, l’odio che non conosce altro sbocco se non dentro una contraddizione che contradditoria, in fondo, non è. Lenù e Lila, Lila e Lenù. Quelle di sempre, come non mai. In un episodio, il sesto della straordinaria terza stagione de L’Amica Geniale, che ha sintetizzato in una manciata d’intensissimi minuti quel che le due protagoniste sono sempre state: amiche sì, amiche vere. Ma anche nemiche, nemiche sul serio.
Un rapporto inspiegabile, per chi non le conosce a fondo. Non per Pietro, lucido marito di Elena, atterrito dopo il primo reale confronto con la realtà in cui sua moglie è nata, cresciuta e si è formata: dentro l’obiettività di un uomo che il rione non può non vederlo con inevitabile distacco, si disvela il bagaglio di dubbi e perplessità di chi Lenù e Lila, insieme, non può proprio capirle. Laddove l’amore si esplicita con le parole, l’odio è implicito negli sguardi incontrollabili delle due donne. Distanze incolmabili paiono dividerle fatalmente, ma questa è una verità che loro due, amiche da sempre e unite da un destino in cui le maledizioni finiscono col parlare il medesimo dialetto delle benedizioni, non possono sostenere. Non Lila, e ancora meno Lenù. Incapace di reazioni davvero violente, una volta messa spalle al muro dalla scomoda narrazione di Pietro, esplode come mai aveva fatto. Prima contro il marito, poi dentro un sogno. Quel sogno in cui la distinzione della realtà dalla fantasia diviene pressoché superflua.
Poi, però, è arrivato l’abbraccio. Manco fosse una riappacificazione con se stessa e una cancellazione del cono d’ombra che riduce la sua anima a una mera combinazione del bianco col nero, Lenù cerca Lila. La insegue come sempre ha fatto nella vita, e la stringe a sé nel ristabilimento di un equilibrio fittizio a cui non può non continuare ad aggrapparsi come aveva fatto fin da piccola. Lei nella stessa misura di Lila, perché non possono non riconoscere l’una negli occhi dell’altra i reciproci ingombranti pregi e gli inconfessabili limiti. Della tossicità di un’amicizia impossibile, resta in fondo questo: un’inevitabile co-dipendenza che le ha portate là dove stanno. Nel bene e nel male, in un perfetto equilibrio in cui la prigione del loro rapporto finisce con l’essere paradossalmente l’unica possibilità per essere davvero libere.
In qualche modo, l’una è sempre stata il principale riferimento per l’altra. Lila per Lenù, il cui senso d’inadeguatezza nei confronti di un mondo troppo grande per lei l’ha sempre portata a doversi superare. E crescere fino a toccare il cielo con un dito: essere la migliore per mascherare la convinzione d’esser sempre un passo indietro rispetto alla sua amica. L’amica geniale. Lontana da un microcosmo, quello del rione, in cui non avrebbe potuto essere in alcun modo chi voleva essere. Un microcosmo che ha respinto, rigettato e detestato: origini che ha mai negato ma delle quali non riesce in alcun modo ad andare fiera. Inadeguate a quel che vuole essere al punto da plasmarla e farla sempre sentire più piccola di quel che invece è sempre stata. Una forza centrifuga l’ha portata lontano, eppure non le ha mai permesso di sradicarsi fino in fondo da quella realtà . Non grazie alla sua famiglia, in cui la zoppia dell’umile madre finisce col rappresentare la madre di ogni limite percepito su di sé, ma per colpa di Lila.
Lila, amatissima Lila. Odiatissima Lila. Non importava fin dove si sarebbe spinta Lenù: non è sufficiente l’orgoglio d’esser stata persino tradotta in una lingua a lei ignota, se poi Lila sorride appena, apre bocca e affascina chiunque appianando col naturalissimo carisma ogni possibile barriera sociale e culturale. Lila, insomma, finisce con l’essere tutto quello che Lenù avrebbe potuto essere e non sarà mai. Ma Lenù è allo stesso tempo l’incarnazione di tutto quello che Lila avrebbe dovuto essere e non sarà mai. Tra il potenziale del genio e un destino percepito come se fosse già scritto, una miriade di pagine bianche tracciano illimitate traiettorie verso altre direzioni. Il senso d’inadeguatezza caratterizza anche Lila, ma si capovolge attraverso una prospettiva in cui non è più il singolo a non essere all’altezza del mondo, ma è il mondo a non essere alla sua altezza. Inadeguati, gli altri. E in fuga, anche lei. Ma alla forza centrifuga di Lenù si contrappone, dopo il fragile esilio, la sua forza centripeta.
Incomprensibile per l’amica, eppure fin troppo chiara nella sua mente: la gabbia di un sistema che oltrepassa i confini del microcosmo per plasmare le regole scorrette del macrocosmo dalle troppe storture, finisce con l’espandersi al di là del contesto in cui si cerca la propria libertà . L’unica soluzione a un conflitto impossibile in cui il sistema non si può in alcun modo abbattere, è l’utilizzo dello stesso. Essere carnefice per non essere la vittima. Esser tutto quello che non avrebbe mai voluto essere con chi non avrebbe mai voluto al suo fianco: un compromesso, per essere un po’ più libera. Traiettorie imprevedibili, figlie di un potenziale espresso solo in minima parte.
Lila lo sa, e per questo non può non aggrapparsi ancora alla sua Lenù. Unite dall’invidia, in un senso o nell’altro, Lila vede in Lenù non tutto quello che avrebbe voluto essere, ma chi avrebbe dovuto essere prima di fermare il tratto della penna sulla prima pagina vuota. L’invidia le avvelena e le allontana, ma “diventare” qualcuno è l’unica via per la sopravvivenza. E il senso d’evoluzione si rispecchia nello stimolo che l’una incarna costantemente per l’altra. Una competizione infinita, in cui trovare il proprio posto nel mondo diventa l’impresa più complessa. Difficile capirle, finché non le si conosce. Impossibile tuttavia non amarle con la stessa intensità con cui talvolta le detestiamo, tra gli infiniti risvolti di una medaglia dagli infiniti valori.
Pietro non lo sa, noi sì. Tutto cambia per cristallizzarsi in un tempo perenne in cui il rione si stravolge per essere sempre lo stesso: cambiare veste per non cambiare pelle. Essere altro, per essere sempre lo stesso. Come Lenù, come Lila. Come ognuno di noi, finché non abbiamo la forza di ammetterlo. Noi che l’amica geniale la troviamo dentro se non fuori, nel contrasto infinito in cui il sogno e la realtà raramente coincidono e si sovrappongono. Dentro un margine invisibile che rappresenta un filo sottile sospeso su un burrone, la smarginatura finisce con l’essere l’unico elemento comune che unisce le persone alle regole che dominano il mondo. Persi, con un solo riferimento possibile: la mano protesa di un amico, al di là di ogni possibile intento. Anche quando quell’amica è la nostra peggiore nemica.
Antonio Casu