Una sfavillante Madrid di fine anni Venti, quattro donne diverse ma rese complementari dalla vita, le istanze di un femminismo che, dopo anni, riesce a far sentire la propria voce e gli intrighi di un thriller d’antan. No, non è un film di Baz Luhrmann o la solita soap opera estiva propinata dalla tv generalista, ma la prima serie tv spagnola firmata Netflix. Esatto, avete capito bene. Il primato non spetta né alla celebratissima La casa di carta, né al teen drama a tinte fosche Élite (fresco di seconda stagione), ma a Le ragazze del centralino che, con le storie di Lidia, Marga, Carlota e Ángeles, è riuscita a conquistare pubblico e critica. Ma ha anche compiuto l’ardua impresa di strappare a Netflix un rinnovo annuale che ha permesso alla narrazione di sopravvivere fino a una quinta stagione (al momento in lavorazione).
Ma facciamo qualche passo indietro.
Nata dalla penna di Ramòn Campos, Gema R. Neira e Teresa Fernández Valdéz, Le ragazze del centralino ha il suo fulcro nelle vite delle quattro protagoniste e nelle vicende dei personaggi collaterali che gravitano attorno a loro e alla Compagnia dei Telefoni, la prima grande compagnia telefonica nazionale dove le quattro trovano lavoro come centraliniste. A tessere le fila del racconto (come sottolineato anche dall’efficacia di un voiceover inserito all’inizio e alla fine di ogni episodio) è Lidia Aguilar, interpretata dalla talentuosa Blanca Suarez.
Lidia non è affatto chi dice di essere. Il suo vero nome, infatti, è Alba e il lavoro al centralino non è altro che (almeno all’inizio) una passeggera zattera di salvataggio per lasciarsi alle spalle un passato fatto di furti, prostituzione, morti misteriose e povertà. Ed è proprio nel tentativo di procurarsi i soldi utili a porre fine ai ricatti dello spregiudicato commissario Calderòn che Lidia incontra quelle che diventeranno amiche e complici fidate.
Ma non è tutto: tra i palazzi e le atmosfere charleston della ruggente capitale, la ragazza incontra anche i due uomini che si contenderanno il suo cuore.
A questo punto penserete: che noia, il solito triangolo fatto di amore, disamore, scontri, incontri, lacrime, bugie e inganni. Beh, non è il caso. O, perlomeno, non del tutto. Il cuore della centralinista batte per entrambi i pretendenti, con modi e ritmi che sembrano cambiare impercettibilmente di episodio in episodio, confondendo le idee dello spettatore senza annoiarlo troppo. Da un lato il primo amore, Francisco, con il quale era fuggita dieci anni prima e che, per un malinteso, aveva perso tra i binari della stazione e le sbarre di una prigione in cui era finita per un furto che non aveva commesso. Un sentimento travagliato che sembra sparire e riapparire a intermittenza ma che, nonostante i dieci anni di lontananza, non si è mai davvero spento. Dall’altro il giovane Carlos, primogenito della famiglia Cifuentes e figlio del fondatore della Compagnia che, ignaro dell’identità e della reale storia della ragazza, si innamora perdutamente di lei. E che, con non poca fatica, riesce a conquistarne il cuore e la fiducia.
Le dinamiche più interessanti del personaggio non si sviluppano nel perimetro del triangolo amoroso ma nel rapporto di amicizia con le altre tre protagoniste.
Dall’ingenua Marga, arrivata in città alla ricerca di indipendenza, passando per la determinata Carlota che, in rotta di collisione con il severissimo padre, scappa dalle comodità di una famiglia benestante sull’onda di un desiderio di emancipazione che la porterà, non senza difficoltà, a rompere barriere e convenzioni sociali. Fino alla timida Ángeles, moglie e madre sottomessa alle violenze e ai maltrattamenti di un marito padrone e alle ombre di una vita che sembra non averle mai dato possibilità di scelta. Nonostante la figura di Lidia spicchi su tutte per mordente e consistenza, le storie delle quattro centraliniste non corrono mai il rischio di esserne fagocitate e riescono a incastrarsi perfettamente nel fil rouge della serie. Ovvero il desiderio nascosto e impellente delle protagoniste di cambiare il corso delle cose anche a costo della propria vita e far capire a un mondo ebbro di maschilismo di non essere più disposte a chinare la testa.
Una necessità che porta le quattro protagoniste de Le ragazze del centralino a trovare appoggio e la squadra perfetta cui rivolgersi per nascondere un cadavere, ricattare un poliziotto o smascherare intrighi degni di Hitchcock.
I toni più delicati della prima stagione lasciano il posto, nella seconda e nella terza, ad ambientazioni e a storyline molto più dark. Queste vedono le ragazze non più in balìa di una società di cui provavano a prendere le misure ma pienamente consapevoli di essere artefici di un destino che le obbliga ad assumersi la pesante responsabilità delle proprie azioni e, spesso, a realizzare l’incapacità di tenere nascosta una verità che ritorna a galla.
Una realtà con cui le quattro, in modi diversi, si trovano a fare i conti. Marga capisce ben presto di dover abbandonare la disillusione e l’ingenuità con cui le luci di Madrid l’avevano accolta per dimostrare il proprio valore; Ángeles si ribella alle violenze del marito, spingendosi sino al limite e, dal limite, riesce a risalire la china e a ricostruirsi una vita di cui non ha più paura; Carlota si riscopre nel suo rapporto con Sara e in una grammatica sulle transizioni di genere e sull’omosessualità trapunta di delicatezza; Lidia fa dei suoi punti forti l’arma per emergere e per far emergere chi, nonostante tutto, sceglie di condividere con lei il peso del mondo e di non lasciarla sola. Soprattutto sull’orlo del precipizio a cui, spesso, la condanna l’eterno melodramma in cui si trova coinvolta.
Quella de Le ragazze del centralino non è un’emancipazione fatta di slogan e di polically correct.
Il contesto storico, seppur relegato allo sfondo, non è lasciato al caso e presta il fianco alla narrazione di un femminismo che si ribella in un mondo votato al patriarcato, dove la parità dei sessi rimane una lontana utopia, dove è legittimo che un marito picchi una donna fino all’aborto e l’essere lesbica è considerato il sicuro preludio alla malattia mentale.
Ne Le ragazze del centralino non ci sono filtri che edulcorano la trama né la pretesa di nascondere la crudezza della storia con il romanticismo delle storie d’amore. L’accurata descrizione di motivi come la violenza domestica, la lotta contro il machismo del tempo, il pregiudizio verso gli omosessuali e i transgender in un’epoca fintamente aperta al cambiamento, riesce a nascondere i difetti e i buchi di trama che, in particolare nella terza e quarta stagione, si fanno piuttosto evidenti, talvolta dando l’impressione di una scrittura un po’ affrettata e raffazzonata che vorrebbe tanto e riesce a concludere ben poco. Soprattutto nella caratterizzazione eccessiva di alcuni personaggi a scapito di altri, ben poco esplorati o inseriti come tappabuchi per qualche episodio e poi gettati via. Lascia, forse, un po’ interdetti anche la scelta della colonna sonora che, più che i ritmi dello swing e del jazz, si fregia del pop di Lorde e Lana del Rey e delle moderne ballate in acustico di Vanesa Martìn. Un passo azzardato che, spesso, crea un corto circuito poco piacevole con la cronologia e gli scenari in cui si muovono i personaggi.
Ne Le ragazze del centralino, gli amanti delle serie storiche non troveranno sicuramente l’eccellenza accademica di The Crown (che sta per arrivare, qui la data della nuova stagione) o di Victoria, ma saranno catturati dalla straordinaria fotografia e dalla ben riuscita mescolanza delle vicende di un feuilleton, dell’alta tensione di un poliziesco e dell’ambientazione degna di un romanzo di Fitzgerald. Oltre che da un bonus non indifferente: poter godere della magia di riconoscersi in una variegata galleria umana e nel realismo delle sue declinazioni, dal dolore silenzioso di Lidia all’abnegazione di Carlota, passando per la fragile spontaneità di Marga e la coraggiosa resilienza di Ángeles.