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Lie to Me a un certo punto non ha più detto la verità su se stessa

Lie to Me
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Da dove cominciamo. Beh, cominciamo col dire che Lie To Me era semplicemente un’idea fantastica. Siamo nel 2009 e la tv è popolata da tanti polizieschi uguali a loro stessi: il caso del giorno col primo sospettato che non è mai l’omicida, interrogatori e contro-interrogatori vari per poi scoprire che voilà, colpo di scena, il colpevole è sempre quello che non ti aspetti ma che quando cominci a capire lo schema ti aspetti già dal primo momento in cui entra in scena, il tutto contornato da qualche blanda storia d’amore tra i protagonisti principali. Roba trita e ritrita, vista e ri-vista. Roba che tenevamo in tv in sottofondo mentre facevamo altro così, giusto perchè in qualche modo era rassicurante. Ma Lie To Me no.

Lie To Me era qualcosa di diverso. Studio delle microespressioni facciali, della comunicazione non verbale, di quello che diciamo realmente quando non diciamo niente o quando proviamo a dire altro ma il nostro corpo si ribella. Wow.

La sigla di Lie To Me ti proietta subito all’interno di questo meraviglioso microcosmo sconosciuto che poi siamo noi stessi: il faccione furbetto di Tim Roth ci introduce in un frenetico susseguirsi di occhi ballerini, bocche che tradiscono smorfie rivelatorie, deglutizioni sospette e mani che vanno dove gli pare mentre le corde vocali tentano disperatamente di raccontare un’altra storia.

A telecomandare il gioco è lui, il grande burattinaio: Cal Lightman, un uomo che riuscirebbe a capire anche cosa vuoi mangiare per cena da un semplice movimento incontrollato del sopracciglio. Cal è uno scienziato a capo del Lightman Group, un’azienda che si occupa appunto di scoprire la verità. La verità su omicidi ma anche tradimenti, rapimenti, segreti inconfessabili. Pagati a peso d’oro per le loro prestazioni, Cal e il suo team formato tra gli altri dalla socia Foster, l’integerrimo Loker e il talento di strada Ria Torres, dedicano l’intera esistenza a scoprire la verità. Decontaminare il mondo dal marcio che lo avviluppa è impresa impossibile, ma eliminarne qualche millimetro giorno per giorno è per Cal e i suoi un gioco da ragazzi.

La prima stagione di Lie To Me è qualcosa di semplicemente ipnotico. Non puoi e non vuoi mai staccare lo sguardo da quello che succede, perchè non stai guardando semplicemente una serie tv: è più come se fossi seduto in prima fila a un lungo e stimolantissimo seminario sulle varie declinazioni del linguaggio del corpo. Perchè Lie To Me va al sodo, sempre: non si accontenta di darti in pasto la tua dose di trama giornaliera come gli altri banalissimi polizieschi, ma ti spiega esattamente quello che succede, perchè succede e come succede dentro i protagonisti, dentro di te, quando ti muovi in un certo modo o moduli la voce in quell’altro. Intrisa di tecnicismi interessanti ma resi facili da capire grazie a una narrazione fluida, vivace, imboccata allo spettatore con un ritmo alto ma non troppo. Una serie del genere sarebbe potuta andare avanti secoli.

Sarebbe.

Perchè poi a un certo punto le cose cambiano, e succede più o meno a partire dalla seconda metà della seconda stagione. Lie To Me comincia a cambiare strada, a porre in essere un nuovo registro narrativo che la rende ne carne ne pesce, e la trasforma in una squallida riproduzione di format già visti. Non basta l’ottima recitazione degli attori, non basta lo smisurato carisma di Tim Roth. Non basta, perchè a un certo punto ti rendi conto che è tutto quello che è rimasto. Ed è poco.

Da un momento all’altro Lie To Me si trasforma nel poliziesco standard che tieni là mentre fai altro solo perchè in fondo è rassicurante. Il morbo del classico schema col primo sospettato che non è mai il colpevole e poi il colpevole è un altro che tentano di farti credere in tutti i modi non sia lui ma sai già che è lui appena entra in scena, invade anche Lie To Me e la dilania letteralmente. Annullandola, spersonalizzandola, di fatto facendola scomparire in un oceano di mediocrità.

Della brillantezza della prima parte non c’è più traccia, degli amatissimi tecnicismi neppure. A dire il vero sparisce lentamente nel nulla anche tutto il discorso legato al linguaggio del corpo, salvo rare e sempre più flebili eccezioni in qualche puntata. D’un tratto ci ritroviamo all’interno di un poliziesco action in cui Cal Lightman è diventato qualcosa di sempre più simile a un improbabile supereroe con patologiche manie di protagonismo: Cal vuole andare sempre nel mezzo della guerra, dell’omicidio, vuole rischiare la vita ogni puntata. Spesso si innesca tra lui e il villain di turno una sorta di sfida all’ultimo sangue in cui Cal alla fine puntualmente prevale grazie alla sua mente, ma non senza negarsi ogni tanto qualche scazzottata o rischiare di finire in mezzo alla sparatoria del giorno.

Una deriva totalmente imprevedibile, e francamente deprimente.

lie to me

All’inizio di Lie To Me venivano sempre trattati due casi del giorno, che si incastravano armonicamente l’uno con l’altro pur non incontrandosi mai. Da un certo punto in poi il caso diventa uno, ed è sempre violentissimo. Avrebbero potuto ridurre il caso a uno impiegando il tempo risparmiato dalla mancata trattazione del secondo caso in un ulteriore approfondimento della comunicazione non verbale e di tutto quello che le sta attorno: ma invece niente, a un certo punto ti arrendi e capisci che non c’è più speranza. Che Lie To Me è diventato un triste poliziesco qualunque, e non si capisce nemmeno come sia potuto succedere un folle harakiri del genere.

Qualcosa di buono avrebbero comunque potuto trarlo da questo switch, che sarebbe stato più accettabile se almeno gli sceneggiatori avessero deciso di dare più peso, rilevanza e sviluppo alla trama orizzontale: i personaggi principali avevano tutti un bel potenziale, e conoscere di più su di loro sviluppando magari dinamiche interne continuative avrebbe reso meno doloroso lo stravolgimento del concept. E invece niente pure qua: Lie To Me continua a verticalizzare come se non ci fosse un domani, scadendo giusto qua e là in un banale tentativo di inconsistente fanservice con bozze di love story tra Cal e Foster, Ria e Loker, ma senza il coraggio di portare avanti nemmeno quelle.

La verità è che purtroppo Lie To Me non ha più capito cosa fosse, cosa volesse essere e cosa volesse diventare. Ha perso per strada la sua splendida identità, affogando nella pigrizia di una scrittura confusionaria e dozzinale.

Lie To Me, a un certo punto, non ci ha più detto la verità su se stessa. Ci aveva promesso qualcosa di nuovo e a tratti didattico, mantenendo egregiamente l’impegno preso con lo spettatore per una ventina di puntate. Ci aveva illusi malamente. Ma poi, paradosso dei paradossi, ha cominciato a mentire. E stavolta a sgamarla siamo stati noi.

La cancellazione è stata a quel punto inevitabile: con la serie che navigava a vista, la terza raffazzonatissima stagione si chiude col telefonatissimo plot twist di Cal che ammette di essere innamorato di Foster. Chissenefrega, Cal. Noi non volevamo le storie d’amore e la grezza spettacolarizzazione del mondo criminale, per quello ci bastavano già i 10mila polizieschi che passavano in tv. Noi volevamo la verità, Cal. Volevamo solo la fottuta verità.

Vincenzo Galdieri