Le Iene, Pulp Fiction, Fours Rooms, La leggenda del pianista sull’oceano, Funny Games e chi più ne ha più ne metta. Poi arriva la prima serie tv del nuovo millennio che vede protagonista Tim Roth (in tv lo avevamo già visto negli anni ’80 e ’90, in qualche miniserie e anche in cinque episodi di Twin Peaks del 2017) e noi andiamo fuori di testa. Aspettative a mille. Luci spente, telefono in silenzioso.
Nel 2009 esce Lie to me.
Una serie di tre stagioni prodotta fino al 2011. Tim Roth è Cal Lightman, uno psicologo a metà tra Gregory House e John Luther, che ha fatto della sua ossessione per la verità un lavoro. La sua specialità è capire quando qualcuno mente osservando le microespressioni facciali e il linguaggio del corpo. Ricordo che quando uscì, in Italia stavamo vivendo una vera e propria febbre da poker e la serie cadeva decisamente a fagiolo.
Tutti i presupposti lasciavano sperare in un nuovo e sfizioso cult con uno degli attori più eclettici di sempre.
Invece, tranne nella prima stagione, Lie to Me a un certo punto non ha più detto la verità su se stessa. È difficile dire cosa sia andato storto. La serie ha avuto un discreto successo e senza dubbio Tim Roth è eccezionale. Ma non siamo rimasti incantati. La trama perde vigore di puntata in puntata e, mentre noi eravamo pronti a prendere appunti per imparare a smascherare ogni poker face, ad un certo punto finiamo per annoiarci.
Dire che hanno calcato la mano con la storia delle microespressioni rivelatrici è un eufemismo.
In Dr. House è un mantra, ma il fatto che tutti mentono viene ripetuto con parsimonia e solo quando è necessario. In Lie to me il discorso diventa ripetitivo tanto da perdere credibilità. Ottimi autori, ottima idea di partenza, ma di memorabile neanche l’odore.
Tutto sommato è una serie godibile, soprattutto se ci piacciono i trick psicologici. Bugiardo in Le Iene (1992), drogato di verità in Lie to me: il confronto però non regge.
Nel 2017 ci riprova con il thriller Tin Star.
Se non ci aveva convinto in Lie to me, qui ne abbiamo la conferma. Sembra un dejà vu. Un’altra serie che lo vede protagonista, un’altra trama promettente e un cast di tutto rispetto. Se non l’avete ancora vista, la trovate su Sky.
Jim Worth, lo sceriffo di Little Big Bear con la stella di latta sul petto, combatte contro molti mali, tra cui la North Stream Oil e se stesso. E chi meglio di un attore caratterista del suo livello poteva interpretare una personalità multipla e tormentata come quella del protagonista? Infatti Jim ha un doppio brutto e cattivo, l’alter ego Jack Devlin e si divide tra istinti violenti (che emergono dopo diversi cicchetti) e senso di giustizia.
Interessante…
Direbbe Dr. House. Uno strano caso alla dottor Jekyll e Mr. Hyde che però poteva essere reso decisamente meglio. Comunque noi continuiamo a guardare: c’è suspense e un passato misterioso; c’è sangue e conflitto; ci sono colpi di scena e c’è Christina Hendricks che abbiamo amato alla follia in Mad Man.
Due serie buone, ma noi ci aspettavamo di più da Tim. Per non parlare della trama. Entrambe sono molto particolari, ma finiscono per ricamare sui soliti cliché diventando prevedibili.
Mr. Orange, dove sei!?
L’attore britannico ha collezionato troppi successi al cinema con ruoli diversissimi che però avevano in comune tutti lo stesso fattore: erano diretti da grandi Maestri. Lo stesso Roth ha dichiarato in un’intervista a Rolling Stone:
Nessuno dirige gli attori come Tarantino, a parte quel matto di Lynch.
Forse è questo il problema. Sia in Cal Lightman che in Jim Worth ci sarebbero tutti gli ingredienti per un nuovo personaggio iconico: genio, ribellione, dualismo e sarcasmo. Ma manca quel non so che di Freddy Newandyke, alias Mr. Orange, e quella camminata trascinante di Ted the bell boy, il fattorino di Four Rooms (1996) dell’hotel da incubo per eccellenza.
Tim Roth è un attore eclettico che può fare di tutto, ma c’è un limite.
Al cinema ha interpretato personaggi che sono diventati delle icone di culto non solo grazie alla sua (fenomenale) interpretazione. Si tratta di personaggi estremi, caratterizzati fin nei minimi dettagli, con una gestualità accurata, tic nervosi, ritmi e accenti che sanno di leggenda. Ma non è tutta farina del suo sacco.
Nelle due serie tv manca il ritmo, il tocco magico del regista e dei dialoghi. Manca la cornice che permette a un attore come lui non solo di brillare, ma di travolgerci come un tir a fari spenti contro mano sulla tangenziale. Non ci ha convinto per la seconda volta perché alle spalle ha dei personaggi ingombranti che ora vivono di vita propria. È ovvio che il confronto non può che deluderci.
Viene da chiederci il contrario: avremmo comunque visto le due serie tv se non ci fosse stato Tim Roth?
Non c’è dubbio che sia Tin Star che Lie to me sono degli ottimi prodotti, ma sono immersi in un oceano di ottimi prodotti. Non è stato il povero Tim Roth a lasciarci insoddisfatti, ma le due serie tv che non hanno saputo sfruttare il suo talento come solo Tarantino sa fare.
Anzi, potremmo azzardare dicendo che le due serie hanno avuto attenzione proprio perché c’era lui che, diciamolo, sfiora il divino ma non fa ancora i miracoli.