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#VenerdìVintage – Perché Benjamin Linus è unico ed indimenticabile

geniali benjamin linus
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A speziare l’universo della serialità televisiva ci sono contenitori di sapori con lo scopo di permanere a lungo, sciogliersi sulla grinzosa superficie dei nostri ambiziosi palati ed assuefare con quiescente soggiorno.
Parte di tali involucri si infrange violentemente sullo spettatore, come solo espediente possibile a rilasciare il suo riconoscibile ibrido di aromi; altri offrono la possibilità di rimuovere il tappo che blocca lo scrosciare di sensazioni caratterizzanti; altri ancora, quel filtro lo mantengono allo scopo di ponderare la fuoriuscita di quelle viscere emotive che li caratterizzano.
Chi contiene il sapore di quel piatto che si fa guardare per intere stagioni prima di essere deglutito, sono i personaggi, soprattutto quelli come Benjamin Linus.

Benjamin Linus, per molte generazioni, è stato il pioniere di una classe alienata dalle precedenti elencate.

Il contenitore di curcuma che non può mancare sul ben assestato mobiletto porta spezie, ma che non ci azzardiamo a toccare per il rischio di un facile uso improprio.
Quello che apprezzi per l’ermetismo proverbiale. Quello la cui pellicola di plastica protettiva è un coagulato di paure ancestrali che vieta ingresso ed uscita.
Quello che, pertanto, resta chiuso per sempre.
Lo stesso che si convince della superfluità di essere assaggiato per venire identificato in un sapore, convinto che guardarsi perpetuamente all’interno attraverso la riflessa immagine speculare di sé sia sufficiente a capirsi senza l’aiuto di agenti esterni.
Benjamin Linus preferisce guardarsi, da solo, per cercare i granelli più corposi e meno raffinati del suo contenuto e capire finalmente la ragione per cui non è ritenuto adatto.
Per capire “cos’ha che non va” agli occhi di chi ha deciso essere il suo unico giudice.
Ben si guarderà in eterno, ma senza piacersi.
Ben si guarderà per poi scoprire di aver fatto quanto di troppo aberrante per riuscire ormai a riconoscersi, e capirà di non essere colui che guarda, bensì l’uomo che sta fissando.
L’uomo nello specchio.

lost

Ciò che fa Ben è preoccuparsi di causare immobilità tra quelle erbe mistiche di un terreno ormai non più tanto ostico per chi v’è cresciuto scoprendone le più scabrose intercapedini.
Una piattaforma ai margini del mondo che gli ha ridonato la vita da infante senza mostrare l’eccedente fattura: senza preludi del sacrificale baratto al quale adempiere per il dono ricevuto.
Ben resta fermo, in attesa delle volontà di Jacob, e nel farlo ancora a sé ed all’isola le pedine necessarie ad un gioco nel quale spera disperatamente di avere un ruolo, perché sa che i modi per avanzare sono tanti e spesso erronei, ma quello di star fermo è uno ed inequivocabile; l’attesa è ciò che gli permette di evitare l’errore per il quale essere biasimato al cospetto di Jacob, quella frazione di rugiada sull’azzurro cristallino che rende visibile il prodromo di una lacrima di rimorso che non può permettersi di far notare.
Il fatto è che Ben arriverà al cospetto di Jacob con molto più di uno scorcio di sofferenza.
Arriverà da lui con una risacca di lacrime indolenti a fare da coltre quasi coprente di quel cristallino annebbiandogli la vista, perché molte di quelle pedine le avrà ormai sacrificate con dolore, nel tentativo di non commettere errori.
Quelle lacrime versate al pedice di Jacob, della forza vettoriale che ha motivato ogni suo gesto, hanno una sola pretesa che verbalizza in una emblematica domanda: “And what about me?“.

lost

Chiede di essere ricordato, Ben, perché lui stesso non perde mai la memoria, perché in quel lavoro di perenne introspezione c’è da attingere al silenzio che ha sempre più voce per gridare alla sua coscienza che i morti non risorgono. Quel silenzio che piange con lui, perché ogni giorno ricorda di essere stato il boia di chi avrebbe dovuto proteggere.

Il ricordo non è sale sulle ferite, sono bensì le ferite stesse di un taglio che non apre ma rastrella per indurre a quel dolore postumo. Questo è il tema agrodolce di una personalità che uccidendo si consuma, che votando contro sé stessa continua a rieleggersi in una posizione ripudiata.
Tutti questi sintomi vengono esteriorizzati nell’esplosione di un momento rannicchiato in quell’attimo che è convinto di precede la morte, quando Ben è in fuga nel bosco da Iliana e si arresta per una confessione volta a miniare il disegno del tratto di un’unica insignificante retta delle infinite passanti per quel punto che rappresenta l’isola.
Benjamin non vuole difendersi. Si ferma perché “vuole solo spiegare“, con la drammaticità di chi inerme si arrende alla verità, confessando tutto ciò che ha meschinamente ed orgogliosamente sacrificato, tra cui l’unica cosa che davvero è mai significata qualcosa nel suo nocciolo di esistenza: sua figlia.
Poi conclude, chiedendo di essere risparmiato per poter raggiungere l’unica persona ancora disposta ad accoglierlo.
Chiede di poter raggiungere l’uomo che ha sempre “ammirato con odio” nell’essere ciò che lui non è mai potuto essere.
Chiede di poter tornare da Locke.

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In merito a quella stessa orda di famelici rimpianti dal retroattivo “effetto boomerang”, Benjamin ha cementato la superficie di anestetico dolore che lo ha reso l’unico in grado di afferrare l’isola per quei palmi maculati di colpe, porgerla in grembo con un surrogato di maternità quasi dovuto, e spostarla per metterla in salvo.

Se Locke ha guardato negli occhi l’isola, a Benjamin è bastato specchiarsi con lo sfondo di quelle arene tropicali che celano quella zona molle, la “fontanella dell’universo“, per scoprirne il cuore.
Perché “uno” e “due” sono soltanto numeri, e nulla come la retorica può ben spiegare che è necessario essere un  “numero uno” per accettare, malgrado tutto, di vivere da “eterno secondo”.