Il 22 settembre del 2004 andava in onda la prima attesissima puntata di Lost. Sarebbero stati 18 milioni i telespettatori incollati allo schermo. Da quel momento la televisione si avviava verso un nuovo capitolo. Quello che Star Wars aveva fatto al cinema Lost lo avrebbe trasposto in Tv. Per la prima volta una Serie televisiva diventava un cult capace di coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore. La fortuna di Lost diede infatti il là alla creazione di un vero e proprio brand a cui associare merchandising e giochi di vario tipo, un “universo espanso”: da The Lost Experience, un gioco interattivo pensato a integrazione della Serie Tv, passando per Find 815 (poco prima della quarta stagione) e Dharma Initiative Recruiting Project (a cavallo della quarta e quinta). Senza dimenticare Mysteries of the Universe (web-isodi ad approfondire la storia della Dharma) e Lost: Missing Pieces (episodi a integrazione della Serie).
Una reazione a catena senza precedenti rese Lost parte integrante delle vite di tutti i giorni, spicchio dell’immaginario collettivo mondiale.
I riferimenti alla Serie avrebbero invaso ogni forma di popular culture: dal cinema, ai videogame, dalle Serie televisive ai libri. Lost si era avviata a diventare una componente della nostra forma mentis. Precedenti, a dirla tutta, vi erano pure stati. Negli anni ’90 Twin Peaks e il suo “Who Killed Laura Palmer?” (Chi ha ucciso Laura Palmer?) terrorizzò e contestualmente appassionò un’intera generazione. E in pieno clima di controcultura Il Prigioniero (The Prisoner, 1967) tenne per la prima volta incollati allo schermo gli spettatori puntata dopo puntata dietro il whodunit “Who is No. 1?” (Chi è il numero 1?). I tempi però erano prematuri e la Serie molto breve (17 episodi). Eppure per la prima volta nella televisione si lanciava un prodotto capace di coinvolgere (tantissime le citazioni: dai Simpson agli Iron Maiden) e creare attesa episodio dopo episodio, dando adito a teorie sull’identità del misterioso Numero Uno.
Curioso notare come dopo la conclusione della Serie l’attore protagonista nonché ideatore e regista, Patrick McGoohan rischiò di finire linciato a causa del finale e dovette rifugiarsi, stando alle sue stesse parole, “per due settimane tra le montagne”. Un tale trasporto emotivo (in negativo) Lost non lo ebbe, certo. Eppure quando “The End”, l’episodio finale, chiuse il cerchio non mancarono voci contrastanti e giudizi carichi di delusione. Una tendenza ancora del tutto attuale che coinvolge anche grandi testate (Wired, per esempio).
Per capirne le ragioni ed eventualmente smentirne la fondatezza dobbiamo ripercorrere Lost e analizzarne il senso. Solo in questo modo potremo rispondere al quesito che in molti si sono posti: gli autori si sono davvero “persi”?
Gli autori in questione altri non sono che J.J. Abrams, Damon Lindelof e Carton Cuse. Se l’idea della Serie nasce dalla genialità di Abrams e Jeffrey Lieber è altrettanto vero che lo sviluppo è merito soprattutto dell’accoppiata Lindelof-Cuse. Dopo il pilot infatti Abrams impegnato in Mission Impossible 3 si disancorò dal progetto. Una giustificazione all’eventuale mancanza di unitarietà di Lost? Tutt’altro. Perché come ebbe a dichiarare lo stesso Abrams fin dal pilot si aveva una chiara idea di come si sarebbe dovuta concludere la Serie.
Se da un lato gli interpreti acquisirono importanza nel tempo (Jack era inizialmente destinato a morire nel pilot), dall’altro il tema di fondo – oserei quasi definirlo a posteriori il “lascito spirituale” degli autori – era ben articolato già nella base stessa del format. Per comprenderlo al meglio bisogna guardare alla morale religiosa che muove gli autori e Abrams in particolare. In un recente articolo si ha avuto modo di analizzare quell’attenzione tutta particolare che alcune Serie hanno dato ai temi di fede. Lost, da questo punto di vista, rappresenta uno dei più fulgidi esempi.
Nonostante Abrams sia ebreo di formazione nella sua opera traspare una religiosità del tutto diversa e per certi versi “nuova”.
Un messaggio che lascia aperta qualunque porta a quel che verrà dopo (per dirla alla Jep Gabardella: “Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove”). E che stabilisce un ponte conoscitivo tra fede e ragione rispondendo a quel teologico “dubbio di fede” che, come afferma J. Ratzinger, coinvolge tanto il fedele quanto l’incredulo, entrambi chiamati a render conto delle proprie posizioni a fronte dell’inevitabile impossibilità di una conoscenza onnicomprensiva. Nell’ambito degli studi storico-religiosi il celebre accademico Raffaele Pettazzoni definì questo stacco come un “residuo” che investe l’uomo in ogni suo atto, nella consapevolezza che egli ha di non poter mai giungere a pienezza di cose (“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa”, Prima Lettera ai Corinzi 13, 12).
Lost ha fatto sua questa tendenza rispondendo a una forma di religiosità immanente, che si proietta tutta nel tempo presente, in una sintesi finale della fede con la ragione.
Non è Locke, uomo dal credo cieco e fanatico, ad avere la meglio. Né il Jack delle prime stagioni, stolidamente rigido nelle sue convinzioni iper-razionali. È l’evoluzione di Jack a trovare espressione finale di sé, in quella ammissione del “mistero che è nel mondo” (“per conservare le semplici verità umane, ci vogliono i misteri; il mistero della felicità, della morte, dell’amore”, Solaris di Andrej Tarkovskij). Nel riconoscimento di ciò che sfugge alla ragione e che ha proprie “ragioni che la ragione non conosce”.
È un percorso iniziatico quello intrapreso dal protagonista di Lost.
E come ogni iniziazione procede attraverso un progressivo disvelamento: così avveniva per i misteri eleusini dove il fedele attraversava varie tappe di “conoscenza” e una parte fondamentale era riservata alla riflessione intima; così è stato – senza cadere nello gnosticismo – per i discepoli di Cristo, progressivamente “preparati” a quella che in Matteo è la rivelazione finale (“Davvero costui era Figlio di Dio!”), ovvero la divinità di Gesù e il senso del suo sacrificio.
L’acqua che Jacob versa su Jack è l’acqua del battesimo a vita nuova. Dell’uomo che rinnova se stesso e si proietta nella nuova, più piena consapevolezza di sé attraverso l’accettazione di un messaggio.
È per l’appunto un messaggio al centro di tutta questa grandiosa costruzione teologica, quell’ama il prossimo tuo come te stesso che in Lost diventa un comando ancor più semplice: “ama!”. È attraverso l’amore che i Losties superano il trauma della loro morte. Nell’amore vicendevole ritrovano piena identità di sé e della loro storia (ricordano) sottraendosi all’oblio della morte. È attraverso l’amore che, in vita, assurgono alla dignità di esseri umani. L’amore li nobilita, li plasma. Oltrepassa le colpe e restituisce al mondo persone nuove (come Monseigneur Myriel che restituisce dignità a Jean Valjean ne I Miserabili). Kate non è più un’assassina. James (il fu Saywer) non più un truffatore. Hurley una persona più sicura e in pace con se stessa.
Ogni personaggio subisce un’evoluzione secondo direttive ben precise (altra innovazione rivoluzionaria nel mondo seriale).
E, nell’idea degli autori, anche noi con loro. È in particolare in Jack che dovrebbe identificarsi il pubblico, in quello “stregone della modernità” che è il medico (Shephard/Shepherd, Pastore e guida). In lui riponiamo la nostra fiducia quasi “devota”. Nella fede per la scienza e la ragione. Ma Lost ci insegna che non può esistere ragione senza religiosità. Che non si può negare il mistero, il “residuo” che è nel mondo e che sfugge alla nostra comprensione razionale. Perché l’uomo è limitato. E l’amore non si fa circoscrivere in una definizione ragionata.
Serve un salto nel buio. Serve abbandonarsi alla fede in ciò che sfugge alla nostra visione cartesiana del mondo (per causa-effetto). Abbandonarsi a quell’amore illogico e insensato che “Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1Cor 13, 7). Lost si è fatto carico di questo messaggio. Tutti i misteri non potevano essere spiegati semplicemente perché la ragione non può circoscriverli, non può rinchiuderli una definizione. Bisogna accoglierli nell’intimità del nostro sentimento.
Certo, non sono mancate lungaggini e la troppa carne al fuoco è risultata indigesta per gli autori.
La fortuna del “brand” Lost ha spinto a “mungere la vacca” finché è stato possibile. Carlton Cuse avrebbe voluto concludere la Serie già al centesimo episodio. Fu il presidente della ABC a imporre il prosieguo prospettando la drammatica possibilità di servirsi di nuovi autori pur di mandar avanti la baracca. Alla fine ci si accordò per ulteriori tre stagioni proseguite tra alti e bassi, con personaggi e trame secondarie di cui avremmo volentieri fatto a meno.
Seppur annacquato Lost non ha però “perso” il suo messaggio di fondo.
La composizione ad anello tra il primo e l’ultimo episodio (ben tratteggiata in questo articolo) rende il senso del racconto. L’occhio che si chiude fa da cesura all’occhio che si apre nel pilot. Il percorso di Jack, come pure il nostro, si conclude lì. Nell’ammissione che non tutto può essere spiegato. Nella consapevolezza che la razionalità ha i suoi limiti. E che l’amore supera la morte. Ma non tutti hanno compreso questo messaggio e lo hanno fatto proprio. Sono rimasti legati alla loro logica razionalista. Hanno rifiutato il “messaggio nuovo”. Delusi dalle aspettative mancate. Inappagati nel loro bisogno di una spiegazione onnicomprensiva (e rassicurante) che Lost si è rifiutato di dare. Che la vita non può dare. Più facile immaginare un mondo in cui tutto segue una logica sequenziale prevedibile che ammettere la presenza di buchi neri conoscitivi. In fondo è un salto nel buio.
“I principi di Cartesio infondevano – e infondono tuttora, ovviamente – una buona sicurezza: descrivere gli oggetti in termini di cause e di effetto […] è un cammino tranquillo: mette al riparo dalle inquietudini prodotte dalla costatazione che la realtà possiede buchi neri, che sfuggono alla spiegazione, che senza posa mettono in discussione i risultati della conoscenza, fino al punto da porre in dubbio il senso stesso del conoscere” -A.Vallega-