“If anything goes wrong, Desmond Hume will be my constant“, Daniel Faraday in Lost.
Desmond Hume è uno dei personaggi meglio scritti e inseriti nella storia di Lost. Non uno dei sopravvissuti, non uno degli Altri, ma un autonomo filone narrativo pregnante di drammatica poesia e di romantica tragedia. Eppure, anche se apparentemente destinato all’infelicità, Desmond ha l’incredibile capacità di incidere sulla vita di tutti i personaggi, sia nella loro vita sull’isola che su quella cosiddetta realtà parallela prodromica al saluto finale. Come un angelo caduto, lo scozzese unisce tutte le trame, a lungo inconsapevolmente, prova a salvare chi non può essere salvato e soprattutto ritrova ciò che la sua vigliacchieria gli aveva fatto perdere: l’amore.
Il personaggio dal cui angolo prospettico maggiormente può apprezzarsi il ruolo e l’essenza stessa di Desmond è senza dubbio Charlie. La giovane rockstar è il collante fra la pregressa conoscenza che Desmond fa con la madre di Faraday, Eloise – e le tanto tristi quanto inevitabili nozioni sul destino – e il suo animo pronto al riscatto, disposto a tutto pur di riuscire a fare qualcosa di buono nella sua vita, dopo aver perso Penny.
Il momento epifanico, oltre al consueto rapporto intimo con i superalcolici (in particolare con quel whiskey di cui non si è mai sentito all’altezza), è ovviamente rappresentato dall’incidente della botola causato da John Locke. Questo evento cambia drasticamente il destino di Desmond che, a causa della sensibilità all’elettromagnetismo e alle qualità dell’isola, diventa in grado di spostare la sua coscienza nel tempo, soprattutto nel passato, ma avendo anche dei flash del futuro.
L’uomo non è, ovviamente, capace di controllare questo suo “potere”, ma anzi lo vive più come una condanna che come un dono. E torniamo a uno dei rapporti più emozionanti di Lost, quello con Charlie.
Tutta la dinamica che mostra i salvataggi di Desmond, fino alla morte di Charlie (e quindi la seconda metà della terza stagione) è un capolavoro di scrittura.
Lo spettatore, infatti, non è onnisciente (non lo è mai in Lost, si potrebbe dire): nonostante le azioni di salvataggio sono osservate dal punto di vista di Desmond, la prospettiva psicologica invece è comune a quella di Charlie, che non capisce – come noi – perché Desmond compia delle azioni apparentemente insensate.
Man mano che lo spettatore è avvicinato alla storia personale di Desmond, e in particolare al suo percorso narrativo dopo l’esplosione della botola, si inizia a comprendere che i suoi comportamenti hanno un senso altruistico, fino a quando è lo stesso Desmond che rivela a Charlie che è destinato a morire, indipendentemente da quante volte riesca a salvarlo.
“Non c’è modo di correggere la rotta dell’universo”.
Le cose cambiano nuovamente quando in una delle sue visioni Desmond crede che la sua amata Penny stia giungendo sull’isola per salvarlo: lo scozzese ha nuovamente uno scopo, e se questo significa lasciare che l’universo faccia il suo corso, così sia. O almeno è ciò che crede. Salva nuovamente l’amico da una freccia nella gola e scopre che la donna giunta col paracadute non è Penny. La disperazione, il dilemma morale, permettono di cogliere quanto essere un angelo caduto sia davvero una condanna.
Il coraggio di Charlie di accettare di morire (dando vita a uno dei finali di stagione più belli di una serie tv) per salvare tutti i suoi amici segnerà Desmond più di quanto egli possa pensare, non solo per la tragicità dell’evento, ma anche per la sua inutilità visto che la nave giunta nei pressi dell’isola
“NOT PENNY’S BOAT”.
Se Desmond è l’angelo caduto nell’universo dei sopravvissuti, e in particolare in quello di Charlie, la stagione finale della serie calca ulteriormente questo ruolo in un’ottica però completamente diversa.
Nell’ultima stagione di Lost, infatti, è proprio l’incontro nella cosiddetta realtà parallela con Charlie che innesca quella serie di eventi e incontri che porta all’episodio finale e al “let go” insieme di tutti i protagonisti. Il gesto, il contatto che attiva il ricordo in Desmond è proprio la mano aperta di Charlie sott’acqua, mentre la macchina affonda, esattamente come avvenuto nella stazione subacquea DHARMA in cui il ragazzo ha trovato la morte. La sesta stagione restituisce a Desmond quel ruolo di angelo caduto che aveva perso nella precedente, in cui il suo ricongiungersi a Penny aveva in qualche modo concluso il suo arco narrativo.
Indipendentemente dalle (legittime) critiche che possono muoversi alla stagione finale di Lost, è innegabile che il lavoro emotivo attraverso i personaggi, costruiti per sei lunghe stagioni, sia mastodontico. Attraverso la guida di Desmond, tutti i personaggi si riuniscono, si ritrovano, si cercano confusi e vivono ciò che non hanno mai vissuto nella vita “reale”. L’operazione di ricongiungimento ha una sua (profana) consacrazione proprio in una struttura che ricorda una chiesa, o comunque un edificio religioso, in cui tutti i personaggi (o quasi) si ritrovano, pronti ad andare oltre. Anche Desmond è lì con loro, a dimostrazione che il suo ruolo di angelo caduto è terminato, e può andare avanti: è il padre di Jack, Christian, che raccoglie lo scettro, e guida i presenti verso la Luce. Verso l’Oltre: perché, alla fine, non è vero che si vive insieme e si muore soli. In Lost, il percorso sull’isola è ciò che più conta, è vita e morte, è lasciarsi andare insieme.
“I’ll see ya in another life, brotha”.