Lost è un titolo che ha segnato indelebilmente la storia della televisione: c’è un prima e un dopo la folle creazione di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber. Molto di quello che vediamo oggi sui piccoli schermi ha a che fare in maniera diretta o indiretta con i sopravvissuti del volo Oceanic 815.
Il finale della serie è andato in onda nell’ormai lontano 23 maggio 2010, portandosi dietro un numero considerevole di lamentele e polemiche. E abbiamo un’ipotesi riguardo a quella coppia di controversi episodi conclusivi (La fine – Prima e seconda parte). In realtà, il finale di Lost non esiste affatto. Una frase criptica quanto il prodotto televisivo a cui fa riferimento, ma non per questo priva di fondamento. Incuriositi? Non vi resta che scendere nella botola insieme a noi (non sapete di cosa stiamo parlando? Ecco perché dovreste recuperare la serie).
Il problema di una non-conclusione
Le lamentele che sono emerse in seguito al rilascio del finale della serie vertevano per lo più su un’aspetto. Si tratta della totale mancanza di risposte riguardo alcuni degli elementi chiave dell’universo narrativo di Lost. Bisogna considerare che lo show in questione deve molta della sua fortuna proprio al grande quantitativo di misteri. Quei segreti che fin dalla prima stagione hanno saputo appassionare i telespettatori di tutto il mondo. Che cos’è il mostro? Chi sono gli altri? E i numeri sfortunati cosa significano? Che fine ha fatto il progetto Dharma? Molti di questi quesiti trovano in effetti risposta nel corso della serie, ma altrettanti sono quelli che rimangono invece irrisolti.
Eppure si possono vedere le cose sotto una prospettiva nuova. Si potrebbe argomentare che nella mancata spiegazione di questi misteri risieda in realtà uno dei più grandi punti di forza. Lost è una serie che ha pregi ma anche difetti. Eppure l’omissione di certe informazioni rientra probabilmente più tra i primi che tra i secondi. E se il complicato intreccio targato ABC non fosse mai stato concepito per essere risolto?
Lo scambio d’informazioni come spettacolo e narrazione
Facciamo un passo indietro. Cosa ha reso Lost l’indimenticabile serie culto capace di segnare indelebilmente una generazione? Certo, una buona dose del lavoro l’hanno fatta elementi come la caratterizzazione dei personaggi o la bravura degli interpreti. O ancora l’idea di partenza e una scrittura degli episodi, quantomeno nei migliori momenti, davvero fuori parametro. Volendo però fare un lavoro di semplificazione, di sintesi estrema, e tentando di ridurre il successo di Lost a un singolo elemento, potremmo chiamare in causa la capacità del racconto di uscire al di fuori dei confini dell’episodio. Permettendo ai fan di continuare l’esperienza di fruizione oltre la dimensione passiva dello spettatore.
Chi ha vissuto Lost al tempo della sua messa in onda sa benissimo che l’episodio cominciava per davvero quando arrivavano i titoli di coda. A quel punto ci si allontanava dai televisori per andare a discutere di quanto appena visto sui forum, o magari in chiamata con qualche amico. La serie tv prendeva vita nelle discussioni, nel chiacchiericcio collettivo, nella formulazione di teorie e spiegazioni riguardo a questo o a quell’accadimento.
Lo scambio di informazioni e di idee tra i fan era e in qualche modo rimane l’essenza stessa di Lost. L‘elemento che più di tutti ha negli anni contraddistinto l’esperienza di fruizione del titolo.
In questo senso, la produzione ABC si è configurata come un precursore di molti dei fenomeni televisivi degli anni recenti. Prodotti pensati per attivare negli spettatori la necessità di discutere online, di interagire, di contribuire a una narrazione a suo modo interattiva. Capace di vivere oltre il minutaggio degli episodi e delle stagioni. Il Trono di spade è a tal proposito l’esempio più riconoscibile, ma a ben guardare questa dinamica comunicativa appartiene ad ogni prodotto seriale indirizzato a un pubblico di massa, e questo a prescindere dal fatto che il medium preso di riferimento sia televisivo, fumettistico, videoludico o cinematografico. Lo stesso Marvel Cinematic Universe, che spazia in realtà tra diversi di questi linguaggi, ha avuto e continua ad avere molto a che fare con Lost, quantomeno in termini di rapporto tra prodotto e pubblico.
La questione dell’intelligenza collettiva
I più attenti ci saranno già arrivati: Lost è una serie che non può finire perché l’interazione che i fan creano a partire dai suoi contenuti è parte stessa del prodotto (a proposito di cose che non possono finire, ecco perché la serie può essere rewatchata all’infinito). I misteri vengono allora lasciati irrisolti per consentire alla discussione di innestarsi ancora e ancora, in uno scambio di informazioni infinito in cui questo stesso articolo finisce per inserirsi.
Il concetto di Intelligenza collettiva, coniato dal francese Pierre Levy nel libro L’intelligenza collettiva: per un’antropologia del cyberspazio, descrive perfettamente questo tipo di fenomeno. Questa, di base, consiste in una forma di intelligenza creata da singoli individui in cui “nessuno sa tutto e tutti sanno qualcosa”, un sapere distribuito, accessibile, costantemente valorizzato. Attorno a Lost si è creata una comunità di appassionati che, tra le discussioni, le ricerche e le teorie, hanno dato vita precisamente a questo.
Per i più curiosi, la rilevanza della serie tv per l’innesto di questo genere di processi all’interno del mondo dell’intrattenimento è tra le altre cose esplorata dal sociologo statunitense Henry Jenkins in Cultura convergente, un saggio del 2009 che rimane a distanze di anni tra le letture più interessanti sull’argomento dei nuovi media.