Forse John Locke iniziamo a conoscerlo veramente qui, nel settimo episodio della prima stagione di Lost.
“È un bozzolo di falena: un’ironia, tutti guardano le farfalle ma sono le falene a filare la seta. Sono più forti, più veloci. Vedi questo forellino? Questa falena presto emergerà. Ora è dentro che lotta, che si scava la via attraverso la corteccia del bozzolo. Adesso la potrei aiutare, con il coltello. Potrei allargare il foro e la falena sarebbe libera, ma troppo debole per poter sopravvivere. In natura si lotta per diventare forti“.
Quando John Locke pronuncia queste parole per aiutare Charlie a disintossicarsi, Lost ci ha da poco introdotto al percorso di un uomo, attraverso un inizio che è al contempo un punto di arrivo: l’attimo in cui convergono tutte le frustrazioni e i sogni di una vita intera.
“Sei speciale, John”.
Una frase sussurrata dolcemente, come in un sogno, ha sospinto in Locke la convinzione di dover incanalare a tutti i costi la sua strada verso il sentiero che il destino ha tracciato per lui: quel destino che, attraverso le parole di sua madre, gli ha imposto di essere speciale. E ora, perso tra le fronde di un’isola senza nome, John non si sente più sperduto: ha trovato la sua terra promessa, il posto a cui è sempre appartenuto. Ci è voluta tutta la vita ad arrivare fin lì, un’esistenza che si è fatta strada con tutte le sue forze attraverso il foro di un bozzolo, e da quel buio è uscita ripagata di ogni male. Chi lo ha messo al mondo lo ha rifiutato e poi gli ha tolto ogni cosa: la speranza di essere amato da un padre, l’affetto di una donna, l’uso delle gambe. Ma nell’inferno di urla, fuoco e terrore generato dallo schianto del volo Oceanic 815 che apre la serie, John ha percepito di nuovo il suo corpo: perché quello non è l’inferno. È il caos primordiale agli albori del mondo.
“Non dirmi cosa non posso fare!”.
John lo ha urlato a chiunque gli impedisse di seguire la rotta tracciata per lui, e l’isola ha accolto il suo appello disperato. Per questo si fida ciecamente di lei: c’è un motivo se l’isola lo ha condotto alla botola, e la tragica morte di Boone, seppur straziante, non è che un sacrificio preteso dall’isola perché lui porti a termine la missione che gli è stata affidata. Un atto di fede lo spinge a digitare al computer quei numeri maledetti e a premere execute.
Non è un caso che John Locke porti il nome di un filosofo. Il titolo stesso dell’episodio 1×03 (Tabula rasa), è un riferimento alla concezione lockiana secondo cui non esistono idee innate impresse nella mente dell’uomo, che l’anima riceve al momento della nascita: tutte le idee derivano invece dall’esperienza. Allo stesso modo, il Locke di Lost crede fermamente che ognuno abbia la possibilità di ripartire da zero, di iniziare una nuova vita sull’isola: qualunque fosse il proprio complesso irrisolto lì non conta più, e tutto ciò in cui si credeva prima di approdare su quella terra incantata deve contaminarsi di più profonde percezioni.
John condivide con l’illuminista omonimo anche la convinzione che l’uomo debba osare servirsi del proprio intelletto senza la guida di nessun altro. Jack è un uomo di scienza, e il suo giudizio è offuscato da un insormontabile preconcetto: ogni sua decisione, infatti, è guidata da una intransigente razionalità. Paradossalmente, è proprio questa a renderlo cieco di fronte a ciò che John tenta in tutti i modi di fargli vedere: l’isola è un luogo in cui la ragione non ha ragione. Locke, al contrario, è un uomo di fede: la sua fiducia incondizionata è riposta nell’isola, che rappresenta per lui la meticolosa tessitrice di un’insondabile trama per ciascuno dei dispersi di Lost.
“Io l’ho guardata negli occhi quest’isola, e quello che ho visto è bellissimo”.
Probabilmente nemmeno la scelta di accostare Locke alla figura di un altro filosofo è casuale: sulla falsa carta d’identità fornita a John una volta lasciata l’isola, infatti, compare il nome di Jeremy Bentham. Il pensatore inglese sostiene che giusto sia ciò che massimizza la felicità: la ricerca del piacere del singolo promuoverà come automatica conseguenza il benessere dell’intera comunità. Questa visione utilitaristica emerge in Locke quando tenta di impedire con ogni mezzo ai suoi compagni di lasciare l’isola: dando fuoco prima alla stazione Fiamma del progetto Dharma, l’unica dalla quale è possibile comunicare con l’esterno, e poi al sottomarino di Ben. John è terrorizzato, infatti, dalla possibilità che se qualcuno abbandonasse l’isola questa perderebbe le sue facoltà soprannaturali, “reclamando” a sé anche la guarigione dalla paralisi che gli aveva elargito.
“Lo sai Jack. Tu sai di essere qui per un motivo! Lo sai. E se te ne andrai da questo posto, tutto quello che sai ti tormenterà e ti divorerà dentro finché non deciderai di tornare”.
John considera l’isola un’entità senziente, un rifugio dove avvengono miracoli e che necessita di protezione: per questo chiede a Jack di mentire su quanto accaduto una volta tornato a casa, in modo che nessuno tenti di raggiungerla. Il suo destino, infatti, è ancorato all’esistenza stessa dell’isola: qualunque altro luogo all’infuori di quello inchioderebbe ancora una volta il suo corpo e la sua vita a una sedia a rotelle. Ma anche l’integrità dell’isola gravita fatalmente attorno alla vita di John: o meglio, alla sua morte. Locke compie il tentativo estremo di riportare i suoi compagni sull’isola con la consapevolezza di dover fallire: perché il protettore dell’isola in realtà deve essere Jack. È sempre stato Jack.
“Io non credo nel destino”.
“Si invece. Solo che ancora non lo sai“.
John deve morire perché Jack apra gli occhi e convinca i suoi compagni a fare quel leap of faith ancora una volta. Accetta quell’ultima, sfrontata pretesa dell’isola come la missione finale che il destino gli ha affidato. E con un sorriso beffardo quel destino consegna le sembianze di John all’Uomo in nero: il corpo di un uomo che ha trovato la libertà sull’isola, accoglie l’anima di un uomo che della stessa isola si è sempre sentito prigioniero. Ma l’ultima, flebile traccia di John Locke su Lost è dedicata anch’essa, nonostante tutto, alla sua incrollabile e dolorosa fede: che dalle poche parole lasciate su quel biglietto indirizzato a Jack, si innalza e diventa un baluardo capace di illuminare anche la più buia delle notti.
“I wish you had believed me”
Vorrei che mi avessi creduto, Jack