I pregi che rendono Lost una serie tv davvero iconica sono innumerevoli. Tra questi l’ampio e variegato range di personaggi che hanno dato vita a uno dei più rappresentativi cast corali della storia televisiva. E nonostante ciò, l’abilità di far emergere personaggi dotati di una caratterizzazione molto particolare. Unica potremmo dire. Ognuno dei protagonisti cui ci siamo affezionati ha portato con sé sull’isola un bagaglio di esperienze che ha dato vita a tutte le evoluzioni cui abbiamo assistito.
Eppure fra tutti questi ce n’è uno che spicca particolarmente, poiché in grado di dar vita a un personaggio sui generis. Quello di Benjamin Linus.
Uno che difficilmente può inserirsi in sottocategorie di personaggi nella storia di Lost. Benjamin Linus fa gruppo a sé, rappresentando un complesso di valori, azioni e credenze tutto suo, difficilmente assimilabile a quello di chiunque altro lo abbia accompagnato nelle diverse fasi della sua vita. Le quali sappiamo esser state tante, diverse, eppure tutte in grado di forgiare, quasi allo stesso modo, il carattere solitario e la morale controversa di quello che da piccolo e tenero Ben diventerà l’imprevedibile Linus.
Pericolosa mina vagante di un’isola altrettanto vagante.
Fulcro di un espediente narrativo che aveva tutte le carte in regola per naufragare in un clamoroso cliché almeno quanto i passeggeri dell’Oceanic 815 sull’isola che li ha accolti.
Uomo che si indurisce grazie a esperienze difficili, si riscatta con le sue forze e qualche aiutino da un’infanzia di dolore, solitudine e prevaricazione per portare a totale fioritura una sensibilità e un intelletto appena più fini di altri ma che combinati a una buona dose di cinismo accumulato negli anni lo trasformeranno nell’antagonista perfetto. Temuto, potente e a occhio quasi invincibile. Benjamin Linus poteva essere semplicemente questo e competere con Jack Shephard in una gara di stereotipi. E invece no.
Perché se con Jack gli autori di Lost si incagliano, loro malgrado, nella delineazione di un eroe borghese sempre al limite tra cringe e coerenza con se stesso, Benjamin Linus viaggia su tutt’altre frequenze.
Con lui Abrams e Lindelof fanno il salto che li catapulta in un mare di originalità narrativa. In cui a mischiarsi fra loro sono: complessità emotiva, singolarità dell’individuo, insicurezze e manie d’onnipotenza che cozzano e fanno l’amore al tempo stesso. Ma soprattutto la convinzione, quasi strutturale, di essere parte di un piano di cui conosce l’essenza ma non i contorni. Un mix esplosivo che lo rende la bomba a orologeria che sarà. A metà strada tra ciò che doveva essere (a prescindere dalle sue azioni) e ciò che lui ha contribuito a creare per il futuro dell’isola e di chi l’ha abitata.
Così Benjamin Linus cresce e si forma, dall’infanzia all’età adulta, seguendo un cammino in ascesa. Un sentiero asfaltato da lui stesso, lacrima dopo lacrima, bugia dopo bugia, scelta dopo scelta. Diventato altare personale per tutto ciò che ha deciso di sacrificare in favore di un disegno in cui sete di potere e reale necessità di proteggere l’isola si sovrappongono fino a fondersi tra loro.
I membri del progetto Dharma. Charles Widmore. I ricercatori francesi. I sopravvissuti dell’Oceanic 815. E tutti coloro che si sono inavvertitamente inseriti in quel disegno di cui lui e lui solo credeva di essere conoscitore e protettore.
Quella di Benjamin Linus è una storia che va ben oltre quella di un uomo che ha cercato di costruirsi una vita di potere e controllo come rivincita di quelli che non aveva avuto da bambino. E nemmeno la storia di un moderno Icaro. È la storia di un bambino che di speciale aveva suo malgrado la solitudine, la stessa che lo accompagnerà per tutta la vita attraverso le varie comunità cui si unirà senza mai esserne davvero parte.
Che Ben fosse infatti il figlio unico e incompreso di Roger Linus, un seguace ribelle degli Ostili capeggiati da Charles Widmore o il nuovo leader degli Altri, non cambia molto. Per lo meno non quando si parla della percezione che Ben ha di se stesso o di quella che gli altri hanno di lui. La strutturale solitudine che si è insinuata nelle sue vene sin da quando è nato, lo ha incastrato in un’esistenza solitaria e ossessiva. Una in cui poco importa il ruolo che ha rivestito, ma solo quello in cui si è relegato.
Quello di un uomo privo di qualunque forma di attaccamento che non fosse all’immagine di se stesso sull’isola, responsabile della stessa.
Di tutta risposta il rifiuto è stato ciò che lo ha accompagnato quasi per tutta la vita. Anche dopo la morte dell’uomo che gli aveva insegnato fin dalla tenera età cosa significasse essere rifiutati: suo padre. Così Ben continua a essere disprezzato dal suo leader prima di riuscire a bandirlo dall’isola assumendone la carica. E così continua, nel corso degli anni, a esser rifiutato da chi impara a conoscerlo andando oltre l’immagine di capo che prende difficili decisioni per il bene di tutti. Sua figlia Alex, Juliet, e tutti coloro che hanno incrociato il suo cammino vedendo in lui poche luci e molte ombre.
Si delineano così i contorni della parabola di Benjamin Linus: quella di un uomo che credeva di avere il controllo. Di avere in pugno un’isola che rappresentava tutto il suo potere. La storia di un uomo che credeva di sapere tutto. E invece non sapeva niente.
Ed è quando lui stesso realizza quest’amara verità che sviluppiamo le prime note di empatia per un villain caratterizzato da un’incredibile ambiguità. L’ambiguità dell’uomo comune, che appare tanto poco degno di interesse quanto innocuo. Per poi rivelarsi capace delle azioni più spietate. Come rischiare il tutto per tutto davanti a una pistola puntata alla tempia di sua figlia. Far massacrare consapevolmente – per l’ennesima volta – un gran numero di innocenti per poi rispondere con un semplice “e quindi?”
Per la gloria e la grandezza di uno straordinario Michael Emerson ci ritroviamo così a odiare, ammirare, temere, apprezzare e odiare ancora lo stesso personaggio su una vera e propria altalena emotiva. Provando sentimenti ambigui quanto il personaggio stesso per la storia di un uomo senza scrupoli, ricolmo tuttavia di paure e fragilità. Di un uomo enigmatico, difficile da inquadrare e giudicare. A volte troppo umano e a volte troppo poco, o nient’affatto. Sempre diviso tra un egoismo senza limiti e il peso di decisioni difficili. La storia di un capo che tuttavia non è mai riuscito a diventare un vero leader. E ha toccato le corde della nostra empatia quando ciò è stato chiaro ai suoi occhi.
Ovvero quando il mito di Benjamin Linus, infallibile leader degli Altri, mai messo in discussione dopo la cacciata di Widmore, è caduto dall’Olimpo scoprendo le sue bugie, le sue paure e le sue insicurezze.
Quando i segreti dell’isola che tanto credeva di conoscere lo hanno reso a sua insaputa un proprio strumento, una marionetta. Di fatto buttandolo giù dal podio dei manipolatori di Lost, per renderlo il manipolato per eccellenza. Quello per mano del quale Jacob muore, esponendo tutti a un pericolo di cui proprio Ben ha sempre ignorato l’essenza.
Un risvolto geniale per chi come lui aveva deciso sempre della propria vita e di quella altrui manipolando chiunque. Un risvolto che parte dal momento in cui decide di spostare l’isola al posto di Locke incappando nella concatenazione di fattori che porteranno lui e gli Ocean Six a tornare sull’isola nel dubbio atroce che chi è rimasto abbia pagato le conseguenze dell’ennesima azione egoistica di Linus. Senza sapere che non sarà neanche l’ultima volta.
E per quanto non ci sia niente di positivo in questo, in tutto ciò che verrà dopo risiede la giustizia “divina”, probabilmente frutto di quelle stesse leggi incorporate nel cuore dell’isola, che porteranno Ben lungo il tratto discendente della sua parabola. Inaspettatamente, inesorabilmente. Sfidando ogni suo tentativo di restare su un piedistallo. Resterà sì in piedi, ma quello che un tempo era il monumentale capo di una forte comunità, si trasformerà sempre più nell’ombra sbiadita di ciò che fu.
Ribelle. Poi capo. Sempre in grado di trasformare delle mancanze in armi di potere e difesa. Manipolatore, poi manipolato. Marionetta nelle mani di chi il disegno dell’isola di Lost lo conosceva per davvero. Assassino di chi aveva provato a crederci. Fino a ridursi a mero supporto di chi in quel piano doveva esserci per davvero.
È la parabola di un fuoco che da incendio divampante si riduce gradualmente a flebile fiammella, senza tuttavia spegnersi. Restando accesa quel tanto che basta per garantire a chi è rimasto il calore necessario.
Si conclude così la parabola di potere di Benjamin Linus, chiudendo il cerchio della sua vita nella bellissima immagine di un Ben che nel “purgatorio” di Lost si ritrova prossimo a riunirsi agli altri. Alle persone con le quali ha condiviso i momenti cruciali della sua vita. Quelli che gli hanno mostrato se stesso per ciò che realmente era, con le sue bugie, i suoi peccati, ma anche la sua capacità di essere migliore. Di comprendere la lezione più importante: controllo non significava conoscenza.
Arriva dunque così il giusto epilogo di un’evoluzione straordinaria, senza dubbio la più complessa di Lost.
Con un uomo che decide di aspettare ancora un po’ prima di entrare in quella chiesa. Metafora di una lezione ormai appresa, ma ancora da interiorizzare. Benjamin Linus aveva sempre forzato la mano, convinto di esser custode della verità. Invece alla fine decide di restare in disparte. Simboleggiando quella mina vagante di una volta, esterna al disegno di cui aveva disperatamente cercato di far parte pur non conoscendone mai davvero la chiave di lettura. Ignaro che in quel disegno a lui spettava semplicemente un posto diverso. Ai piedi della piramide di potere che lo aveva corrotto. E che alla fine gli è stato dato, ma in forma diversa. Quando l’isola sapeva che era finalmente pronto ad accoglierlo nella sua forma migliore.